Navigato e geniale, ecco Rivaldo

Economia in crisi, ma Berlusconi pensa a rinforzare il suo Milan

 

 

di Maurizio Mazzacane

 

   Pernambucano appariscente: in mezzo al campo, al limite dell’area altrui, dove si inventa, dove il calcio si fa evoluzione, dove la palla crea il risultato che olia l’ingranaggio. Esuberante: di tecnica, di gesti, di arte, nella cadenza e nell’applicazione. Olivastro, apparentemente timido: la voce discreta non urla, ma detta. Eppure parla: e si sente. Tagliente, preciso, diretto, diplomatico quando serve: navigato. Poche frasi, mirate. “Siamo i più forti, vinceremo il Mondiale”: vero. “La Turchia non può nuocere, siamo il Brasile”: lontano da qualsiasi metafora, rischiando l’imprudenza o, se volete, la supponenza che travolge. “Con il Barcellona il discorso è chiuso. Van Gaal non fa per me. Vado via”: secco, brutale. Imbrigliato dal contratto, ma sicuro di sé, deciso. Senza alzare la polvere, consapevole che un accordo è pura carta che può stracciarsi, invalidarsi. Tranquillo, calcolatore, accontentato: Rivaldo è in Italia, al Milan, improvvisamente. “Neanch’io l’avrei sospettato, qualche tempo addietro”: eppure è possibile anche questo. 

Trentenne di successo: coppe, titoli nazionali, un Pallone d’Oro, il Campionato del Mondo. Dell’album dei più forti era la figurina mancante e l’Italia l’ha chiamato: la crisi del calcio bussa solo alla porta dei più deboli e non spaventa Berlusconi. Affare annusato e concluso: la gente applaude e pregusta, la linea di montaggio si rianima. Il Milan, malgrado tutto, può spendere. Tanto. Perché Rivaldo costa. Tanto. Cartellino più contratto, si scivola su cifre indigeribili. Ma non importa: Rivaldo c’è, quando sembrava irrimediabilmente lontano, irraggiungibile. Se n’era invaghita la Lazio di Cagnotti: abbordaggio lungo e lusinghe continue, ma spese invano. Il Barcellona lo blindava, lo difendeva. La teoria di Luis Van Gaal, tecnico scomodo, l’ha liberato, proiettandolo nel libro paga gestito da Galliani.

Rivaldo c’è, è arrivato: atterraggio morbido, quasi silenzioso. Ha svicolato, dribblato pressioni e passioni della gente. Poche parole, chiarificatrici: “Ho trent’anni, ho appena aggiunto in bacheca la coppa più importante con la Seleção, ma non vuol dire che sia già stanco oppure appagato. Vengo per vincere: ovunque sia stato, ho vinto qualcosa. Lo farò anche in Italia”. Concetti che garantiscono la tifoseria accuratamente evitata all’aeroporto: perdono immediato, allora.

Rivaldo è classe genuina, controllo di palla coniugato all’astuzia, esperienza miscelata all’abilità. Con la palla tra i pedi, ma anche tra verbi e aggettivi: “Ronaldo? Problemi dell’Inter. Io parlo della mia squadra, del Milan”. Cronisti raggirati, con garbo, eleganza. La stessa eleganza di tocco, rapido e incisivo. Spesso decisivo. “Il numero di maglia? Prendo la undici, la dieci la lascio volentieri a Rui Costa”: taccuini delusi, Rivaldo è pratico, furbo, saggio.

Rivaldo ha edificato il cammino del Brasile in Corea, devolvendo i riflettori giapponesi a Ronaldo. Vincendo la scommessa che era sua, di Scolari e della squadra tutta. Aggiudicandosi uno spazio indelebile nella galleria dei più amati, nel club dei vincenti. Occupando un posto perpetuo nel cuore della gente e nella storia del football. Incassando e ripartendo per una nuova avventura, che è un’avventura complessa. Il Milan rimane un’idea, un progetto indefinito. E sì: capire quanto Rivaldo possa aggiungere concretamente al quoziente di pericolosità del team di Ancelotti è il nuovo gioco di società che ha colorato un’estate sbiadita e che non ha ancora ottenuto risposte eloquenti. La classe, da sola, non sempre basta. Soprattutto in Italia, dove calcio significa stress, condizionamenti, polemica, tecnica, tattica e agonismo, tutto assieme. Dove il risultato è la diretta conseguenza di un equilibrio, sul campo e al di fuori, sulle panche degli spogliatoi e tra le scrivanie societarie.

Ma Rivaldo c’è. E ha già decodificato e capito il mondo che gli ruota attorno. A Barcellona, e non solo. C’è, con le sue intuizioni e con quella malizia di attore consumato. Con la furbizia che sgorga dal talento: quella palla che a Ulsan, a gioco fermo, gli franò addosso e lo indusse a barcollare e cadere fortificò il Brasile di Felipe Scolari. Era simulazione pura, espediente limpidissimo, la Turchia pagò e protestò: forse, però, proprio allora la Seleção emerse dalla paure e dal torpore, appropriandosi di certezze e coraggio, di forza interiore e convinzione. Forse proprio allora il Brasile acquisì il possesso della propria inespressa potenzialità, modificando un ancor fragile profilo psicologico. Probabile, probabilissimo: o, almeno, ci piace pensarlo. La storia, intanto, racconta di quel Brasile che guadagnò un passo diverso e più sicuro e che raggiunse l’ultima stanza del corridoio, a Yokohama. E Rivaldo c’era, protagonista di un sogno, di un’impresa. Protagonista, pensando all’Italia.