La misteriosa scomparsa dei neri brasiliani

 

 

 

di Rogerio Diniz Junqueira

 

 

traduzione di Dulce Rosa Rocque

 

(em portugues)


"I meccanismi di oppressione razziale in Brasile producono, tra altri effetti, conflitti nell'identità dei neri. Associata a contenuti negativi, che riducono sistematica e violentemente l'umanità del nero, non è da meravigliarsi se diventa un peso incomodo dal qual è necessario liberarsi, anche se sarà nel momento di riempire un questionario che ci sollecita una definizione di colore/razza".

Edson Cardoso


Premessa

Diciamo chiaramente fin dall'inizio: siamo pienamente favorevoli all'adozione immediata di quote per le cosiddette "minoranze" (che in termini effettivi possono perfino essere la maggioranza) come forma di politiche d'azione affermativa e con l'intento di invertire tendenze storiche che le hanno lasciate in condizioni di svantaggio. Nel caso brasiliano, ciò deve servire soprattutto come misura applicata durante il tempo necessario a garantire l'accesso di uomini e donne afro-discendenti all'università e al mercato del lavoro nelle stesse condizioni di salubrità e di salari degli uomini bianchi.

 

I neri e l'istruzione superiore in Brasile

In questi ultimi mesi, l'Università di Brasilia (UnB) discute l'adozione o meno di un sistema di quote etnico-razziale per i propri corsi. Se sarà approvata tale proposta, 20% dei posti di tutti i corsi, per i prossimi 10 anni, saranno destinati agli afro-discendenti. Si collocherebbe così fra le prime università brasiliane a adottare tale politica di azione affermativa in un paese in cui i neri rappresentano, secondo l'economista Marcelo Paixão (2002), meno del 18% degli studenti (12,8% degli iscritti al corso di legge, 13,3% di quelli di medicina, 9,1% di quelli di odontologia) e, come dimostrano i dati del ministero dell'Educazione, soltanto il 2,2% dei laureandi.

Oggi, gli afro-discendenti corrispondono basilarmente al 54% della popolazione del Distretto federale (dove si trova Brasilia). Tuttavia, come ha dimostrato l'antropologo José Jorge de Carvalho, la loro presenza è limitata soltanto a circa l'1% dei docenti dell'UnB, meno dell'1% degli studenti di post-laurea e circa il 5% dei laureandi. Ancora: quanto più numeroso è il corso, più "bianco" si dimostra. Guardando i numeri, l'UnB in sostanza non rilascia diplomi di lauree in giurisprudenza, medicina e odontologia ai neri. La principale università della capitale della repubblica, così, è candidata alla medaglia d'oro in discriminazione etnico-razziale, poiché in materia presenta indici molto peggiori di quelli già terribili della media nazionale. L'adozione di misure di azione affermativa si impone con massima urgenza 

Nell'ambito di questa discussione, l'UnB non è un caso isolato. Ed era ora, poiché, insomma, più di 100 anni dopo l'abolizione della schiavitù, gli afro-discendenti continuano a trovare enormi barriere alla propria integrazione nella società brasiliana nella condizione di cittadini. Ad esempio sono neri soltanto 12 dei 513 membri della Camera dei Deputati, l'esubero di 2 degli 81 senatori e nessuno dei governatori delle 27 unità della federazione (con l'eccezione della vicegovernatrice Benedita da Silva, donna, favelada e nera, che e' stata appena incaricata del governo dello stato di Rio de Janeiro). A Bahia, dove si trova la maggior percentuale di neri del paese (80%), gli studenti afro-discendenti della principale università pubblica non superano l'8%. Davanti a questi esempi, come non essere entusiasti dinanzi all'iniziativa delle università pubbliche dello stato di Rio de Janeiro di garantire agli studenti afro-discendenti il 40% dei posti nei propri corsi di laurea?

In realtà le quote già esistono in Brasile, però in misura poco o niente audaci. La legge determina che nei concorsi pubblici vi sia una piccola quantità di posti per i portatori di handicap. Esistono anche quote per le donne negli elenchi dei candidati a cariche politiche (però i partiti difficilmente riescono a raggiungere le cifre minime stabilite), come anche per quanto riguarda la concessione di terra nell'ambito dei programmi di riforma agraria del Ministero dello Sviluppo Agrario (Mirad). Fin qui nessuno aveva protestato. Le lamentele sono cominciate quando il Mirad ha deciso una quota minima del 20% per i neri, tra le funzioni svolte da lavoratori sotto contratto senza concorso pubblico e, pertanto, senza stabilità lavorativa (autisti, office boys, office girls!) e ha continuato in senso peggiorativo quando nel programma ufficiale della riforma agraria, ha aggiunto il criterio del "colore" nell'elenco dei criteri per la concessione di terra. Nei prossimi mesi dovrebbe entrare in vigore, nel Supremo Tribunale Federale, il regime di quote del 20% per i neri, però limitatamente ai contratti dati in gestione a terzi e, pertanto, utile a un numero piccolissimo di beneficiari, che inoltre non avranno alcuna stabilità ed avranno, pure, salari più bassi.


Una proposta "stravagante" e la portata delle politiche universali


I detrattori dell'adozione di tali misure si trovano a destra e a manca. Insigni "visi-pallidi", nelle vesti di alti funzionari della repubblica, non perdono l'opportunità di opporsi alla creazione di quote per i neri nelle università pubbliche brasiliane. Ribadiscono che le "politiche universali" praticate da questo governo sono già il passo più idoneo per ridurre l'esclusione dei neri dagli studi universitari. Uno di loro, come ha ricordato il giornalista Elio Gaspari (2001), ha qualificato questa misura come "stravagante" e "irrazionale". Niente male se pensiamo che altri non era che il rappresentante del ministro dell'Educazione brasiliano nel comitato che preparava la terza Conferenza dell'Onu "Contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e l'Intolleranza Correlata"! Nel fronte interno dell'UnB, un docente, militante sindacale, ha dichiarato (ovviamente off the record) di essere contrario alla misura, giacchè "non possiamo avere due categorie di alluni: un gruppo preparato, di bianchi, e un altro che entra grazie ad "un'aiutino" (Correio Brasiliense, 27.02.02). Gravitano intorno a queste prese di posizione (che credo siano state espresse con la più profonda sincerità intellettuale), oltre a elementi di una supposta credenza nella competenza superiore (innata?) dei bianchi, equivoci circa cosa siano effettivamente le politiche di azione affermativa.

Dunque, è necessario chiarire subito: le politiche di azione affermativa o di "discriminazione positiva" (tra le quali le quote sono soltanto uno degli strumenti ed inoltre adottate per un periodo predefinito) costituiscono un insieme di sforzi che tendono a garantire pari opportunità individuali a persone appartenenti a gruppi discriminati. Dove sono state applicate, si sono mostrate efficaci integrando gli individui più idonei del gruppo. Ossia, la tendenza è aiutare quell'individuo dotato di tutte le condizioni e requisiti per occupare un determinato incarico o posto e che non riesce perché nero, donna, portatore di handicap ecc. (Mills, 1994). Nessuno pensa, con tali scelte "stravaganti", di dare un "aiutino" a persone "non preparate".

Le politiche di azione affermativa in favore degli afro-discendenti mirano a favorire quel contingente de persone preparate - e quindi pienamente meritevoli - e che, perché neri, da generazioni devono usare una serie di strategie e sforzi quasi sovrumani per non essere esclusi o per rimanere in una situazione di inclusione precaria o, il più delle volte, subalterna. Dette politiche, è chiaro, non raggiungono la grande maggioranza, privata dai diritti più elementari e basici della cittadinanza.  Il che può essere risolto, chiaramente, con politiche pubbliche universali contro la fame, la miseria, l'analfabetismo, la disoccupazione ecc. Però, a quelli che insistono dicendo che basterebbe beneficiare i "poveri" per beneficiare i "neri" visto che i poveri sono in maggioranza neri, si rende necessario sottolineare che le politiche pubbliche universali in Brasile non si sono rivelate efficaci per una rapida riduzione delle disuguaglianze sociali tra i differenti segmenti etnico-razziali. Se ci limitiamo al compito (senz'altro importante) di cercare di educare meglio un bambino nero, oggi, perché lui riesca ad entrare all'università in futuro, in primo luogo, si sta rimandando la soluzione di almeno undici anni (Paixão, 2002). In secondo luogo, si evita di adottare provvedimenti che permettano l'accesso all'università a quel giovane o adulto di oggi che, anche se è perfettamente in grado di frequentarla nelle stesse condizioni di qualunque altro studente, si trova escluso anche di tutto quello che ne consegue, soprattutto in termini di migliori salari.

Sulla riuscita delle politiche pubbliche universali nell'area dell'educazione, vale la pena ricordare una recente indagine dell'Istituto di Ricerca Economica e Applicata, condotta da Ricardo Henriques (2001), la quale rileva che fin dal 1929, la differenza tra la scolarità media degli adulti bianchi e neri è di 2,3 anni. In quell'anno, un bianco aveva poco più di 4 anni di scolarità e un nero, nipote di schiavi, ne aveva 2. Settanta anni dopo, a dispetto degli esiti proclamati (e ossessivamente annunciati) dall'attuale amministrazione federale, il bisnipote di quel nero dei primi decenni del secolo XX aveva 6,1 anni di scolarità, ed il bisnipote del bianco, 8,4. Come sottolineato da Elio Gaspari, "l'insieme è salito però la differenza tra i due gruppi continua la stessa". Nel caso rimangano questi ritmi, i neri riusciranno ad arrivare dove oggi si trovano i bianchi, soltanto fra 32 anni. A quel punto dove si troveranno i bianchi?

Inoltre, l'inefficacia delle politiche pubbliche in Brasile per combattere gli effetti della sistematica discriminazione etnico-razziale è tale che bianchi e neri sembrano non vivere nello stesso paese. Basta ricordare che, basati sui dati del 1999, nel ranking dell'Indice di Sviluppo Umano (Hdi), il cui calcolo considera indici quali l'istruzione, aspettativa di vita e reddito per capita, il bianco brasiliano si trovava al 46° posto relativamente alla popolazione del pianeta, mentre il suo compatriota afro-discendente era al 101°. Nel 1999, l'analfabetismo era dell'8,3% tra i bianchi e del 19,8% fra i neri. Il nero brasiliano viveva in media 65,12 anni, mentre il bianco, 71,23 (Folha de S.Paulo, 06.01.02). Oggi, le nere e i neri brasiliani, oltre a prendere uno stipendio da due a due volte e mezzo inferiore a quello di un brasiliano bianco, hanno due volte in più possibilità di rimanere disoccupati avendo le stesse qualifiche di un bianco. Loro sono il 67% dei lavoratori che prendono fino a mezzo salario minimo (circa 100 euro, ndr.). Le donne nere corrispondono, da sole, al 56% delle persone occupate in lavori domestici, e gli uomini neri sono il 56,5% dei lavoratori dell'edilizia (Paixão, 2002). Ecco il perché della necessità dell'adozione del regime di quote anche nel mercato del lavoro. Diventa difficile non dare ragione a Suely Carneiro (2001) quando segnala che una perversa politica di azione affermativa è in vigore in Brasile da più di 500 anni, però totalmente a favore dei bianchi, poiché, insomma, "ogni nero escluso significa un'azione affermativa a favore dei bianchi" (p. 25).

E' inoltre imprescindibile richiamare l'attenzione sulle ricerche che affermano che, per occupare lo stesso posto o arrivare a un livello di stipendio "di bianco", il nero brasiliano avrà bisogno di studiare almeno quattro anni in più e avere, pertanto, più titoli che suo concorrente la cui pelle è provvista di meno melanina. In altre parole: questa uguaglianza duramente conquistata nel piano di lavoro è risultato di enormi sforzi nella sfera dell'istruzione. Questo sforzo risulta ancora maggiore se prendiamo in considerazione il fatto che egli deve rimanere più tempo in una scuola che, il più delle volte, oltre a non trovarsi all'altezza della lotta contro razzismo e discriminazione etnico-razziale nel paese, si rivela un polo di espulsione di bambini e giovani neri. La scuola è razzista, e, soprattutto per questo, i tassi di dispersione scolastica sono più alti tra gli studenti neri che tra quelli bianchi. Inoltre, come ha dimostrato una ricerca realizzata dalla Fondazione Carlos Chagas per conto dell'assessorato di Educazione dello stato di San Paolo e insieme al Consiglio di partecipazione e sviluppo della Comunità nera, quando non evade, il bambino nero è il più rimandato, è quello che frequenta i peggiori corsi e tende a essere spinto in scuole meno equipaggiate, con pochissime risorse pedagogiche e turnazioni più corte (Silveira, 2000). Trasformare questa scuola è, anch'esso, un compito urgente.



Dovè il nero che era qui? 


Un altro argomento molto usato contro l'adozione del sistema di quote: il Brasile non dispone, giuridicamente e culturalmente, di un criterio unico e inequivocabile per definire chi sia nero e chi non lo sia. Data la mescolanza, non si riuscirebbe a distinguere chi è questo nero e, così, non si riuscirebbe a sapere a chi riservare le quote in questione. D'altronde, è stato e lo è ancora, questo, l'argomento usato per dire che nel paese non esiste razzismo. Come lo dimostra Carlos Hasenbalg (1979, tra altri), far diventare invisibile il nero è uno dei perni fondamentali del mito della democrazia brasiliana.

Fantastico. Oltre a non continuare a cercare una soluzione per il problema, rimaniamo paralizzati davanti ad una supposta inesistenza di razzismo e discriminazione etnico-razziale nel paese oppure davanti all'impossibilità di promuovere i neri, a causa dell'impossibilità di riconoscerli o, infine, in funzione della loro scomparsa!

Dove sono questi neri? Domandate, per esempio, alla polizia. Loro sanno chi sono poiché hanno un strana preferenza nel torturarli. Cerchiamoli nelle code dei disoccupati. Domandiamo ai portieri delle dimore lussuose, alle guardie dei shopping-centers, ai gestori dei ristoranti più raffinati: loro sanno, senza difficoltà, a chi devono permettere l'entrata o quale trattamento offrire ai (propri) clienti a seconda del colore della pelle. Nel momento di chiamare un afro-discendente di "negro arrogante", "creolo sfacciato" (e così via, sempre in peggio), o di proibire o rendere difficile l'entrata in determinati ambienti, o nel rifiutare di prenderli a lavorare o di dare loro una promozione, riusciamo molto bene a identificarli nel colore. Allora, come osserva José Jorge de Carvalho (2002), "nell'ora di preparare i programmi di inserimento sociale, diciamo semplicemente che è difficile identificarlo".

Nessuno afferma che le questioni relative all'identità siano cose semplici. Però, qui, le cose assumono, testardamente, complessità forse inaspettate da altre parti. Questa stessa società che, come dicevamo, si mostra brutalmente incapace di localizzare il nero "scomparso", nel momento di renderle un beneficio, può, però, finire per favorire il "bianco", che riappare adesso nelle vesti del "nero". Fu quello che, in certa misura è successo a Sao Paulo con il progetto Geração 21. Il Geledés  Instituto da Mulher Negra, un'importante organizzazione nera, ha sviluppato questo progetto con l'appoggio del Bank of Boston, per seguire e garantire a 21 giovani studenti neri della rete di scuole pubbliche, sia la permanenza nella scuola, sia la conclusione degli studi universitari scelti da ognuno di loro. Inizialmente, la selezione dei candidati era compito dei direttori delle scuole coinvolte, e questi hanno finito per scegliere soltanto persone di pelle molto chiara, le quali, in altre circostanze sarebbero sicuramente identificate come "bianche". E' stato necessario l'intervento del Geledés perché la selezione ricadesse sui giovani neri, secondo la "radicalità del fenotipo".

In una società come la brasiliana, dove identificarsi o essere identificato come nero comporta un costo sociale molto elevato, questo episodio illustra ancora che, in situazioni in cui "essere nero" acquisisce una valenza positiva, non ci sarebbero tante ragioni per assumere una maschera bianca, transitoria o perfino indefinibile. L'auto-identificazione in base transitoria o indefinibile è frequente e può essere facilmente trovata, per esempio nelle risposte al questionario del censimento dell'Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge). Così, se prima, nel linguaggio ufficiale, l'identità afro-brasiliana già appariva troncata e divisa in "neri" e "pardos" (bruni), ora, per opera di chi rispondeva sono apparse centinaia di colori .come: "abbronzata dal sole", "quasi nera", "ben chiara", "bianco-sporca", "quasi bianca", "poco morena", "poco-chiara", "giallo bruciato", "bianco-scura", "tostata", "olivastra", "asino-quando-scappa", tra altre (Schwarcz, 1998: 227). Come osserva Edson Lopes Cardoso (2000), nella misura in cui verranno create circostanze positive e degne per l'essere nero, il numero di neri tenderà ad aumentare considerevolmente, ed inizieremo a valorizzare di fatto la ricchezza della nostra diversità etnico-razziale, "senza gerarchizzazioni oppressive che portano milioni di persone a reprimere dimensioni fondamentali della propria condizione umana".

Da questo proviene la pertinenza di un progetto di legge del deputato Paulo Paim (del Partito dei Lavoratori, del Rio Grande do Sul) che stabilisce una quota di almeno 25% di attori neri nei programmi televisivi e del 40% nelle pubblicità fatte sia nella TV sia nel cinema. Questo progetto riveste una particolare importanza, poiché, anche se qualche ricercatore insiste nel limitare il potere dei media nel cambiare una società, d'altra parte, nessuno afferma che esso sia insignificante. Insomma, innumerevoli ricerche, come quelle pubblicate da Gail Dines e Jean Humez (1995) e quella di Christopher Campbell (1995), indicano che la programmazione mediatica esercita un considerevole impatto nell'auto stima delle "minoranze" in generale e sui neri in particolare. Secondo loro, il medium incide fortemente nelle percezioni e nelle rappresentazioni che questi segmenti hanno di se stessi. E' chiaro che, oltre alle quote, è fondamentale assicurare che gli afro-discendenti appaiano come persone positive e non soltanto come oggetti di rudimentali rappresentazioni stereotipate o grottesche. Però, nel terreno delle rappresentazioni positive, rimane valido quanto affermato da Muniz Sodré: la TV brasiliana ha per il nero lo stesso effetto che lo specchio ha per il Conte Dracula. A dispetto di qualche eventuale miglioria, in questo senso l'invisibilità è quasi assoluta. 



Il buon inizio ed i suoi alleati


Vale ricordare che l'adozione di quote del 20 o anche del 40% per gli afro-discendenti non sarà sufficiente, però è un formidabile punto di partenza. La (ri)comparsa virtuosa del nero dovrà assumere, di modo difficilmente reversibile, una dimensione di straordinaria importanza nel processo di lotta e costruzione di uno spazio sociale effettivamente democratico in termini socio-politico ed etnico-razziale nel paese e che potrebbe anche non rimanere soltanto fra le nostre frontiere.

Uno dei problemi, nel caso delle università, sarebbe quello di assicurare allo studente nero, in termini di politiche pubbliche universali, un eccellente insegnamento basico e, nell'ambito delle politiche di azione affermativa, garantirgli non solo l'entrata nell'università, ma anche la sua permanenza. E infine, articolando queste due politiche, preoccuparsi affinché, finalmente, il suo ingresso nel mercato del lavoro avvenga con parità salariale in relazione a quello bianco. Inoltre, una maggiore presenza di professionisti neri più qualificati nel mercato del lavoro tenderà a produrre un effetto moltiplicatore nell'incremento della loro auto-stima, allo stesso tempo in cui proporzionerà alla società il servizio di persone che conoscono profondamente la realtà vissuta dagli afro-discendenti brasiliani.

Detto questo, è importante sottolineare che può rivelarsi molto efficace la pressione dei gruppi organizzati della società civile brasiliana e alla cosiddetta società civile globale perché lo Stato e la società brasiliana adottino politiche di azione affermativa a favore degli afro-brasiliani e di altri segmenti storicamente discriminati. Però, l'ideale sarebbe che l'opinione pubblica formata da un coro di voci internazionali, allo stesso tempo, fosse anch'essa ugualmente impegnata nel demolire i meccanismi di oppressione etnico-razziale presenti dentro delle frontiere da dove provengono. E' molto bello avere alleati coerenti.

L'autore è laureato in Comunicazione all'Universita di Brasilia; docente di Sociologia all"UniCEUB (Centro Universitario di Brasilia) e all'IESB (Istituto di Educazione Superiore di Brasilia); - ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Sociologia delle istituzioni giuridiche e Politiche (Italia); - è giornalista. 


 


Riferimenti bibliografici

CAMPBELL, Christopher, Race, Mith and News. London: Sage, 1995.
CARDOSO, Edson Lopes. Afinal, qual a sua cor?. Educação Municipal (Informativo da União Nacional dos Dirigentes Municipais de Educação), anno 5, n. 13, aprile, 2000.
CARNEIRO, Suely. Entrevista. Democracia Viva, n. 11, 2001.
_______ Nós?. Correio Braziliense, 22.02.2002.
CARVALHO, José Jorge de. Candidatos definem a própria cor. Correio Braziliense, 27.02.2002.
CAVALLEIRO, Eliane. Do silêncio do lar ao silêncio escolar: racismo, discriminação e preconceito na educação infantil. Sao Paulo: Contexto, 2000.
______ Racismo e anti-racismo na escola: repensando nossa escola. Sao Paulo: Selo Negro, 2001.
DINES, Gail; HUMEZ Humez (eds.). Gender, Race and Class in Media. London: Sage, 1995.
GASPARI, Elio. Um vice para Paulo Renato. Folha de S. Paulo, 26.08. 2001
HASENBALG, Carlos. Discriminação e desigualdades raciais no Brasil. Rio de Janeiro: Biblioteca de Ciências Sociais, 1979.
HENRIQUES, Ricardo. Desigualdade racial no Brasil: evolução das condições de vida na década de 90. <http://www.ipea.gov.br/pub/td/td-2001/td0807.pdf>
MILLS, Nicolaus (ed.). Debating affirmative action: race, gender, ethnicity and the politics of inclusion. New York: Delta Books, 1994.
PAIXÃO, Marcelo. Cotas: eu digo sim!. Correio Braziliense, 27.02.2002.
SCHWARCZ, Lilia Moritz. Nem preto nem branco, muito pelo contrário: cor e raça na intimidade. In: SCHWARCZ, Lilia Moritz (org.). História da vida privada no Brasil: contrastes da intimidade contemporânea. Vol. 4. Sao Paulo: Companhia das Letras, 1998.
SILVEIRA, Evanildo da. Racismo: o preconceito faz escola. Jornal da UNESP, aprile, 2000.

(em portugues)

 

O misterioso desaparecimento dos negros brasileiros

por Rogerio Diniz Junqueira

"Os mecanismos de opressão racial no Brasil produzem, entre outros efeitos, conflitos na identidade negra. Associada a conteúdos negativos, que reduzem sistemática e violentamente a humanidade do negro, não admira que ela se torne um peso incômodo, do qual precisamos nos livrar, ainda que seja no momento de preenchermos um formulário que nos solicite uma definição de cor/raça." (Edson Cardoso)


Premissa

Digamos claramente desde o princípio: somos plenamente favoráveis à adoção imediata de cotas para as assim chamadas "minorias" (que em termos efetivos podem até ser a maioria) como forma de políticas de ação afirmativa com vistas a reverter tendências históricas que lhes legaram duras situações de desvantagem. No caso brasileiro, isso deve valer sobretudo como medida, aplicada ao longo do tempo que for necessário, para garantir o acesso de homens e mulheres afro-descendentes ao ensino superior, aos meios de comunicação, à terra e ao mercado de trabalho nas mesmas condições relativas à salubridade e aos salários dos homens brancos.


Os negros e o ensino superior no Brasil

Nesses últimos meses, a Universidade de Brasília (UnB) vem discutindo se adota ou não um sistema de cotas étnico-racial para a seleção dos alunos que se candidatarem aos seus cursos. Se aprovada tal proposta, 20% das vagas de todos os seus cursos, ao longo dos próximos dez anos, serão destinadas a alunos afro-descendentes. Estaria entre as primeiras universidades brasileiras a adotar tal política de ação afirmativa em um país em que os negros representam, segundo o economista Marcelo Paixão (2002), menos de 18% dos estudantes (12,8% dos inscritos no curso de direito, 13,3% nos de medicina, 9,1% nos de odontologia) e, conforme mostram os dados do ministério da Educação, apenas 2,2% dos formandos.
Hoje, os afro-descendentes correspondem basicamente a 54% da população do Distrito Federal (onde situa-se Brasília), todavia, conforme demonstrou o antropólogo José Jorge de Carvalho, a presença deles está limitada em cerca de apenas 1% dos professores da UnB, menos de 1% dos alunos de pós-graduação e cerca de 5% dos alunos de graduação. E mais: quanto mais concorrido é o curso, mais branco ele é. A valermos pelos números de hoje, a UnB praticamente não forma bacharéis em direito, médicos e dentistas negros. A principal universidade da capital da república, assim, é candidata à medalha de ouro em discriminação étnico-racial, pois apresenta índices muito piores do que a já terrível média nacional a este respeito. A adoção de medidas de ação afirmativa se impõe na sua máxima urgência.
No âmbito desse debate, a UnB não é um caso isolado. E já não era sem tempo, pois, afinal, mais de 100 anos após a abolição da escravatura, os afro-descendentes continuam encontrando enormes barreiras à sua integração na sociedade brasileira na condição de cidadãos. Eles são, por exemplo, apenas 12 dos 513 membros da Câmara dos Deputados, a exorbitância de 2 dos 81 senadores e nenhum dos governadores das 27 unidades da federação (com a exceção de vice-governadora Benedita da Silva, mulher, favelada e negra, que acaba de ser empossada governadora do estado do Rio de Janeiro). Na Bahia, onde há o maior percentual de negros do país (80%), os estudantes afro-descendentes da sua principal universidade pública não passam de 8%. Diante de tal quadro, como não aplaudir a iniciativa das universidades públicas do estado do Rio de Janeiro em garantir para os estudantes afro-descendentes 40% das vagas oferecidas pelos cursos de graduação?
Na realidade, as cotas já são praticadas no Brasil, mas em medida pouco ou nada audaciosa. A lei determina que nos concursos públicos haja uma pequena quantidade de vagas preenchida por portadores de deficiência física. Há ainda as cotas para mulheres nas listas de candidatos a cargos eletivos (mas os partidos continuam apresentando dificuldades para o seu preenchimento), como também no tocante à concessão de terras nos programas de assentamento do Ministério do Desenvolvimento Agrário (Mirad). Até aí ninguém tinha aparecido para protestar. As reclamações começaram ao Mirad estipular uma cota mínima de 20% para os negros, entre as funções executadas por trabalhadores contratados sem concurso público e, portanto, sem estabilidade empregatícia (motoristas, recepcionistas, office boys e office girls!) e depois, pior ainda, ao incluir o quesito "cor" no elenco dos critérios para a concessão de terras no programa oficial de reforma agrária. Para os próximos meses, deveria entrar em vigor, no Supremo Tribunal Federal, o regime de cotas de 20% para negros, porém limitado aos contratos terceirizados e, portanto, também para um número ínfimo de beneficiados, tampouco sem estabilidade e com salários mais baixos.


Uma proposta "escalafobética" e o alcance das políticas universais

Os detratores da adoção de tais medidas encontram-se a torto e à direita. Insignes "caras-pálidas", nas vestes de altos funcionários da república, não costumam perder a oportunidade para rebater a idéia do estabelecimento de cotas para os negros nas universidades públicas brasileiras. Costumam sustentar que as "políticas universais" praticadas por este governo já são o caminho mais adequado para reduzir a exclusão dos negros do ensino superior. Um deles, como bem recordou o jornalista Elio Gaspari (2001), chegou a qualificar a medida como "escalafobética" e "irracional". Nada mal para quem era nem mais nem menos do que o representante do ministro da Educação brasileiro no comitê preparatório para a terceira Conferência da ONU "Contra o Racismo, a Discriminação Racial, a Xenofobia e a Intolerância Correlata"! No front interno da UnB, um professor com militância sindical, declarou (naturalmente "off the record") também ser contrário à medida, já que "não podemos ter duas categorias de alunos: um grupo preparado, de brancos, e outro de negros que entraram graças a uma mãozinha" (Correio Braziliense, 27/02/02). Gravitam em torno dessas tomadas de posição (que acredito terem sido expressas com a mais profunda sinceridade intelectual), além de elementos de uma suposta crença na superior competência (inata?) dos brancos, equívocos acerca do que sejam efetivamente as políticas de ação afirmativa.
Então, é preciso esclarecer logo: as políticas de ação afirmativa ou de "discriminação positiva" (entre as quais as cotas são apenas um dos instrumentos e adotadas segundo prazos definidos) constituem-se um conjunto de esforços que visam a garantir igualdade de oportunidades individuais a pessoas pertencentes a grupos discriminados. Onde têm sido aplicadas, elas têm se mostrado eficazes para integrar os indivíduos mais aptos desses segmentos. Ou seja, elas tendem a ajudar aquele indivíduo dotado de todas as condições e requisitos para ocupar um determinado cargo ou posição e que não o consegue por ser negro, mulher, portador de "deficiência física" etc (Mills, 1994). Ninguém espera, portanto, com tais medidas "escalafobéticas", "dar uma mãozinha" a pessoas "despreparadas".
As políticas de ação afirmativa em favor dos afro-descendentes visariam a favorecer esse contingente de pessoas preparadas - com mérito sim - e que, por serem negras, vêm, há gerações, tendo que lançar mão de um sem número de estratégias e esforços quase supra-humanos para não serem excluídos ou para permanecerem em uma situação de inclusão precária e, no mais absoluto das vezes, subalterna. Tais políticas, é claro, não dão conta da grande maioria, privada dos direitos mais elementares e básicos da cidadania - o que se resolve, evidentemente, com políticas públicas universais de combate à fome, à miséria, ao analfabetismo, ao desemprego etc. No entanto, aos que insistem no argumento segundo o qual bastaria beneficiar os "pobres" para beneficiar os "negros" já que os pobres são em sua maioria negros, é preciso sublinhar que as políticas públicas universais no Brasil não têm se revelado eficazes para uma rápida redução das desigualdades sociais entre os diferentes segmentos étnico-raciais. Ao nos limitarmos à (de todo modo importante) tarefa de procurar educar melhor a criança negra de hoje para que ela possa fazer seu vestibular no futuro, em primeiro lugar, estamos postergando a solução em pelo menos onze anos (Paixão, 2002). Em segundo lugar, estamos deixando de adotar medidas que permitam o acesso à universidade àquele jovem ou adulto de hoje que, embora seja perfeitamente idôneo para freqüentá-la nas mesmas condições de qualquer outro estudante, encontra-se excluído dela e de tudo o que daí decorre, sobretudo em termos de melhoria salarial.
Sobre o alcance das políticas públicas universais na área de educação, vale lembrar um recente estudo do Instituto de Pesquisa Econômica e Aplicada, conduzida por Ricardo Henriques (2001), que revela que, desde 1929, a diferença entre a escolaridade média dos adultos brancos e negros é de 2,3 anos. Naquele ano, um branco tinha pouco mais de 4 anos de escolaridade, e um negro, neto de escravos, tinha 2. Setenta anos depois, a despeito dos êxitos supostamente alcançados (e ostensivamente anunciados) pela atual administração federal, o bisneto do negro das primeiras décadas do século XX tinha 6,1 anos de escolaridade, e o bisneto do branco, 8,4. Como sublinhou Elio Gaspari, "o conjunto subiu, mas a diferença entre os dois andares continuou a mesma". A permanecerem os ritmos atuais, os negros só conseguirão atingir as marcas ocupadas hoje pelos brancos daqui a 32 anos. Àquela altura onde estarão os brancos?
Aliás, a ineficácia das políticas públicas no Brasil para combater os efeitos da sistemática discriminação étnico-racial é tal que brancos e negros parecem não viver no mesmo país. Basta lembrar que, com base nos dados de 1999, no ranking do Índice de Desenvolvimento Humano (IDH), para cujo cálculo consideram-se índices tais como educação, expectativa de vida e renda per capita, o branco brasileiro situava-se em 46º lugar em relação à população do planeta, enquanto seu compatriota afro-descendente ficava em 101º. Em 1999, o analfabetismo era de 8,3% entre brancos e de 19,8% entre negros. O negro brasileiro vivia em média 65,12 anos, enquanto o branco, 71,23 (Folha de S. Paulo, 06/01/02). Hoje, as negras e os negros brasileiros, além de ganharem de duas a duas vezes e meia menos do que os brasileiros brancos, têm duas vezes mais chances de estar desempregados do que um branco com as mesmas qualificações. Eles são 67% dos trabalhadores que recebem até meio salário mínimo. As mulheres negras correspondem, sozinhas, a 56% das pessoas ocupadas em serviços domésticos, e os homens negros são 56,5% dos empregados na construção civil (Paixão, 2002). Daí a necessidade de se adotar o regime de cotas também no mercado de trabalho. Fica muito difícil não dar razão a Suely Carneiro (2001) quando assinala que uma perversa política de ação afirmativa está em vigor no Brasil há mais de 500 anos, mas inteiramente em favor dos brancos, pois, afinal, "cada negro excluído significa uma ação afirmativa em favor dos brancos" (p. 25).
É imprescindível ainda chamar atenção para as pesquisas que apontam que, para ocupar um mesmo cargo ou alcançar um nível salarial "de branco", o negro brasileiro precisa estudar pelo menos quatro anos a mais e ser, portanto, melhor titulado do que seu concorrente cuja pele é provida de menos melanina. Em outras palavras: essa igualdade duramente conquistada no plano do trabalho é resultado de imensos esforços empreendidos na esfera educacional. Esforço tanto maior se nos lembramos que ele tem que ficar mais tempo em uma escola que, no mais as vezes, além de ainda não se encontrar à altura da luta contra o racismo e a discriminação étnico-racial no país, tem se revelado um pólo de expulsão de crianças e jovens negros. A escola é racista, e, sobretudo por isso, as taxas de evasão escolar são mais altas entre os estudantes negros do que entre os brancos. E, como mostrou uma pesquisa realizada pela Fundação Carlos Chagas em convênio com a Secretaria de Educação do Estado de São Paulo e com o Conselho de Participação e Desenvolvimento da Comunidade Negra, quando não evade, a criança negra é a mais reprovada, é a que freqüenta os piores cursos e tende a ser empurrada para escolas menos equipadas, com piores recursos pedagógicos e turnos mais curtos (Silveira, 2000). Transformar esta escola também é tarefa urgente.


Cadê o negro que estava aqui?

Um outro argumento comumente usado contra a adoção do sistema de cotas é a alegação que o Brasil não dispõe, jurídica e culturalmente, de um critério único e inequívoco de definição de quem é negro ou de quem não seja. Dada a miscigenação, não conseguiríamos distinguir quem é esse negro e, assim, não poderíamos saber a quem conferir as cotas reservadas. Aliás, foi e ainda tem sido este o mesmo argumento usado para dizer que no país não há racismo. Como nos mostram os estudos de Carlos Hasenbalg (1979, dentre outros), tornar invisível o negro é um dos eixos fundamentais do mito da democracia racial brasileira.
Fantástico. Além de não prosseguirmos na busca da solução do problema, quedaríamos paralisados diante de uma suposta inexistência do racismo e da discriminação étnico-racial no país ou diante da impossibilidade de promover os negros, dada a impossibilidade de reconhecê-los ou, por fim, em função de seu próprio desaparecimento!
Onde estão esses negros? Perguntem, por exemplo, à polícia. Ela sabe quem são, pois possui uma estranha preferência em torturá-los. Procuremos nas filas dos desempregados. Perguntemos aos porteiros dos prédios luxuosos, aos guardas dos shopping centers, aos gestores de restaurantes mais refinados: eles sabem, sem dificuldade, a quem devem permitir a entrada ou que tratamento conferir aos seus clientes segundo a cor da pele. Na hora de chamarmos um afro-descendente de "negrinho arrogante", "crioulo safado" (e por aí à fora, sempre piorando), ou de barrar ou dificultar-lhe a entrada em determinados ambientes, ou de nos recusarmos a dar-lhe um emprego ou uma promoção, conseguimos muito bem identificar-lhe a cor. Agora, como bem observou José Jorge de Carvalho (2002), "na hora de produzirmos programas de inclusão social, dizemos simplesmente que é difícil identificá-lo".
Ninguém afirma que as questões relativas à identidade sejam coisas simples. Entretanto, as coisas assumem, caprichosamente, aqui, complexidades talvez inesperadas em outras plagas. Essa mesma sociedade que, como dizíamos, abruptamente mostra-se incapaz de localizar o negro "desaparecido", na hora de beneficiá-lo, pode, porém, acabar favorecendo o "branco", que reaparece agora nas vestes de "negro". Foi o que, em certa medida, aconteceu, em São Paulo, com o projeto "Geração 21". O "Geledés - Instituto da Mulher Negra", uma importante organização negra, desenvolveu esse projeto, com o apoio do Bank of Boston, para acompanhar e garantir a 21 jovens estudantes negros da rede pública de ensino, tanto a permanência na escola, como a conclusão dos estudos universitários da escolha de cada um deles. Inicialmente, a seleção dos candidatos coube aos diretores das escolas envolvidas, e eles acabaram por escolher apenas pessoas de pele muito clara, que, em outras circunstâncias, seriam indubitavelmente identificadas como "brancas". Foi preciso uma intervenção do Geledés para que a seleção recaísse sobre os jovens negros, segundo a "radicalidade do fenótipo".
Em uma sociedade como a brasileira, onde identificar-se ou ser identificado como negro comporta um custo social tão elevado, esse episódio ilustra ainda que, em situações nas quais "ser negro" adquire uma valência positiva, não haveria tantas razões para assumir uma máscara branca, transitória ou até indefinível. A auto-identificação em base transitória ou indefinível ocorre com freqüência e pode ser facilmente encontrada, por exemplo, nas respostas aos questionários do recenseamento do Instituto Brasileiro de Geografia e Estatísticas (IBGE). Assim, se antes, na linguagem oficial, a identidade afro-brasileira já comparecia truncada e dividida em "negros" e "pardos", agora, por obra dos respondentes, aparecem centenas de cores, tais como: "queimada de sol", "quase-negra", "bem-clara", "branca-suja", "meio-branca", "pouco-morena", "pouco-clara", "amarela-queimada", "alva-escura", "tostada", "verde", "burro-quando-foge", entre outras (Schwarcz, 1998: 227). Como observa Edson Lopes Cardoso (2000), à medida que forem criadas circunstâncias positivas e dignificantes para o ser negro, o número de negros tenderá a ampliar-se consideravelmente, e passaremos a valorizar de fato a riqueza de nossa diversidade étnico-racial, "sem hierarquizações opressivas que levam milhões de pessoas a reprimir dimensões fundamentais de sua condição humana".
Daí a pertinência de um projeto de lei do deputado Paulo Paim (do "Partido dos Trabalhadores" do Rio Grande do Sul) que estabelece cota de pelo menos 25% de atores negros na programação dos canais de televisão e de 40% em comerciais veiculados na TV e no cinema. Este projeto reveste-se de particular importância, pois, apesar de alguns pesquisadores insistirem na limitação do poder da mídia em mudar uma sociedade, por outro lado, ninguém afirma que ela seja insignificante. Afinal, inúmeros estudos, como o editado por Gail Dines e Jean Humez (1995) e o de Christopher Campbell (1995), indicam que a programação midiática exerce um considerável impacto na auto-estima das "minorias" em geral e dos negros em particular. Segundo eles, a mídia incide fortemente nas percepções e nas representações que esses segmentos fazem de si mesmos. Evidentemente, além das cotas, o fundamental é assegurar que os afro-descendentes figurem como personagens positivas e não apenas como objeto de rudimentares representações estereotipadas ou grotescas. No entanto, no terreno das representações positivas, continua válido o que afirmou Muniz Sodré: a TV brasileira tem para o negro o mesmo efeito que o espelho tem para o conde Drácula. Apesar de alguma melhora eventual, neste sentido a invisibilidade é quase que absoluta.


O bom começo e seus aliados

Vale encarecer que a adoção de cotas de 20 ou mesmo 40% para os afro-descendentes não será suficiente, mas é um formidável ponto de partida. O (re)aparecimento virtuoso do negro deverá assumir, de modo dificilmente reversível, uma dimensão de extraordinária importância no processo de luta e de construção de um espaço social efetivamente democrático em termos sociopolíticos e étnico-raciais no país e que poderia não ficar limitado às nossas fronteiras.
Um dos problemas, no caso das universidades, seria o de assegurar ao estudante negro, em termos de políticas públicas universais, um excelente ensino básico e, no âmbito das políticas de ação afirmativa, garantir-lhe a entrada e a permanência na universidade e, por fim, em uma articulação entre essas duas políticas, cuidar para que, finalmente, seu ingresso no mercado de trabalho se dê com paridade salarial em relação aos brancos. Além do mais, a maior presença de profissionais negros mais qualificados no mercado de trabalho tenderá a produzir um efeito multiplicador no incremento da auto-estima desses segmentos, ao mesmo tempo em que proporcionará à sociedade o serviço de pessoas que são profundas conhecedoras da realidade vivida pelos afro-descendentes brasileiros.
Dito isso, é importante ainda sublinhar que pode revelar-se muito eficaz a pressão dos grupos organizados da sociedade civil brasileira e a assim dita sociedade civil global para que o Estado e a sociedade brasileira adotem políticas de ação afirmativa em favor dos afro-brasileiros e de outros segmentos historicamente discriminados. No entanto, o ideal seria que a opinião pública formada por um coro de vozes internacionais, ao mesmo tempo, também estivesse igualmente empenhada em demolir os mecanismos de opressão étnico-racial presentes dentro das fronteiras de onde provém. É muito bom ter aliados revestidos de coerência.



Referências bibliográficas

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SCHWARCZ, Lilia Moritz. Nem preto nem branco, muito pelo contrário: cor e raça na intimidade. In: SCHWARCZ, Lilia Moritz (org.). História da vida privada no Brasil: contrastes da intimidade contemporânea. Vol. 4. São Paulo: Companhia das Letras, 1998.
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