Violenza in Brasile, quasi una guerra civile  

Nel solo stato di Rio gli omicidi nel 2001 sono stati oltre 9 mila

 

 

di Alessio Slossel 

 

da Rio de Janeiro

      Rio de Janeiro, dicembre 2001. Una coppia di rapinatori assalta un autobus di linea. Un passeggero armato li affronta e li uccide. Poi costringe l’autista a proseguire la corsa tenendo aperta la porta attraverso la quale scaraventa fuori i cadaveri dei rapinatori. Prosegue per un altro tratto di strada quindi scende dall’autobus e si allontana indisturbato.

Sempre Rio, 2 marzo 2002. Una colonna formata da due furgoni e tre automobili carichi di trafficanti armati delle fazioni Terciero Comando e Amigos dos Amigos si dirige di notte verso una favela controllata dalla fazione Comando Vermelho. Lungo il percorso incrociano un auto della polizia con cui ingaggiano un conflitto a fuoco. I poliziotti, nonostante l’auto crivellata di colpi, riescono a fuggire.

A questo punto i trafficanti per vendicarsi dell’interferenza della polizia nelle loro questioni si dirigono prima verso un chiosco di controllo della polizia militare (ve ne sono sparsi per tutta la città) e lo mitragliano coi fucili automatici Fal, uccidendo un sergente di polizia. Poi si recano davanti alla delegacia (più o meno l’equivalente di un commissariato italiano) cui apparteneva la pattuglia con cui avevano avuto lo scambio di colpi, sparano un centinaio di colpi di fucile sulla facciata dell’edificio e sulle auto parcheggiate e infine buttano una bomba a mano. L’alba del giorno dopo otto poliziotti della stessa delegacia fanno irruzione in una casa, uccidendo il trafficante che guidava il commando e due suoi amici.  

Si parla molto di violenza in Brasile, ma spesso è difficile comprendere l’entità e soprattutto le caratteristiche del fenomeno. Fatti come quelli succitati qui sono considerati ordinari e di poco conto, praticamente quotidiani. La violenza cui frequentemente si riferiscono i turisti, quella fatta di furti e rapine per strada, non viene neanche presa in considerazione. E il motivo lo si può capire leggendo i dati su crimini e delitti che annualmente lo stato di Rio de Janeiro pubblica.

Poco dopo il carnevale (immagino per non spaventare i turisti) lo stato ha reso noto il rapporto annuale e il giornale "O Globo" ha colto la palla al balzo per pubblicarlo e per criticarne severamente i criteri di calcolo.

I numeri sono comunque impressionanti:

Cadaveri rinvenuti in luogo diverso da quello del

delitto                                                                                   1.171

Morti conseguenti a scontri con la polizia (spessissimo

si tratta di esecuzioni sommarie)                                                586

Scomparse  (in questo caso la polizia calcola che il 50%

di questi casi siano omicidi)                                                    3.872

 

Omicidi (cadaveri rinvenuti sul luogo del delitto)                      5.877

 

Il totale calcolato è quindi di poco più di 9.200 omicidi per l’anno 2001, in leggera crescita rispetto all’anno precedente. Va detto che questi numeri sono riferiti al solo stato di Rio, e che pare che Rio de Janeiro sia l’unico stato del Brasile che rende regolarmente pubblici questi dati.

Va anche detto che siamo in periodo elettorale, quindi non è un caso se il quotidiano affronta in modo così severo e aperto il problema. "O Globo" infatti è molto critico nei confronti del governatore Antony Garotinho che si è candidato per le presidenziali forte di un certo consenso maturato qui a Rio (addirittura un’importante scuola di samba esaltò Campos, sua città natale, nelle sfilate dell’ultimo carnevale). La tesi del giornale è che il suo predecessore era più competente in materia e che non manipolava i numeri facendo tutte queste separazioni tra omicidi e “atti criminosi contro la vita” che caratterizzano i dati divulgati dall’attuale governo e che sottrarrebbero oltre tremila omicidi alle statistiche ufficiali.

La parola “sicurezza” è una delle più frequenti sulla bocca di cariocas, paulisti e in generale dei brasiliani che vivono nelle grandi città quando parlano di desideri e aspirazioni. I politici lo sanno bene e l’argomento si presta molto a strumentalizzazioni elettoralistiche. Quest’anno però è accaduto qualcosa di diverso che ha zittito molte voci. E' infatti accaduto che i prefetti Toninho di Campinas e Celso Daniel di Santo Andre, entrambi del Pt (Partido do Trabalhadores, rappresentanza storica sella sinistra brasiliana) siano stati uccisi in seguito a tentativi falliti di rapina e di sequestro.

Pare proprio che in questi casi non si tratti di omicidi politici, e lo stesso Pt ha inserito ai primi posti nell’agenda del proprio programma di governo la questione “Violenza”, togliendo di fatto molti argomenti alla destra che tradizionalmente si millantava garante della parola ordem scritta sulla bandiera lasciando volentieri la parola “progresso” agli intellettuali di sinistra.

Al di là delle schermaglie politiche brasiliane, penso sia chiaro a chiunque che i numeri in questione siano quelli di una autentica guerra civile e che nessuna ricetta basata su leggi di polizia o interventi tampone di tipo sociale possa scalfire questi numeri. È solo il fatto che la stragrande maggioranza degli omicidi avvenga nei morros e nelle favelas che permette una vita quasi normale alla gente comune.

Qui le favelas sono considerate una specie di mondo a parte, dotato di leggi e costumi propri, un grande serbatoio di manodopera a buon prezzo e nulla più, o quasi. Questo sentire diffuso è corroborato dal fatto che, scuole di samba a parte, nulla di tutto ciò che si produce nella vita civile proviene da quei quartieri. L’insicurezza nasce dalla diffusione di una micro - criminalità aggressiva, spesso violenta e rozza, che mira alle tasche di chiunque; da una polizia che si comporta frequentemente come una qualunque banda di tagliagole, compromessa fino all’inverosimile coi peggiori traffici e da fenomeni come quelli del 4 marzo, quando abitanti del morro Cantagalo che si trova a ridosso della ricca Ipanema hanno cominciato a tirare sassi sulle auto in transito nell’Avenida Visconde de Piraja, la via principale di Ipanema, uno dei “salotti” di Rio.

La loro era una protesta contro la polizia che avrebbe effettuato l’ennesima esecuzione sommaria con un colpo alla nuca di un rapinatore che si era arreso e che proveniva da quella favela. Il fatto è accaduto per strada, c’erano molti testimoni e i tumulti sono scoppiati quasi immediatamente. Ci sono molte apparenti similitudini tra le favelas e certi quartieri di Napoli o di altre città del mezzogiorno: quando un importante trafficante muore, tutti i negozi restano chiusi; i comportamenti delle persone sono rigidamente codificati e chi sbaglia muore; la polizia non entra se non in gruppi numerosi armati fino ai denti e, quando lo fa, ci scappa quasi sempre il morto.

Io stesso l’ho potuto constatare una notte che mi è capitato di tornare a casa a bordo di un auto della polizia. Abitando molto vicino a un morro, ho visto il terrore sul volto del poliziotto che mi accompagnava: prima di imboccare la mia strada di casa ha fatto diverse finte per controllare le reazioni della gente. Poi a tutta velocità e con la pistola senza sicura appoggiata sul sedile accanto mi ha portato fino all’ingresso del condominio. Il tempo di scendere dall’auto ed è schizzato via. Al tempo stesso vi sono anche enormi differenze rispetto al controllo mafioso all’italiana del territorio: le estorsioni nelle favelas sono rarissime, tra gente comune e trafficanti esiste una netta separazione, ma al tempo stesso la fortissima solidarietà che caratterizza chi abita nelle favelas si estende a tutti senza distinzioni di “professione”.

Un’altra caratteristica potenzialmente molto destabilizzante è quella delle grandi bande criminali: non si tratta di associazioni mafiose con cupole, coperture politiche e finanziarie internazionali; piuttosto assomigliano alle gang giovanili nord - americane, solo che qui sono enormi e con una componente ideologica non trascurabile. Su questo argomento rimando a una delle mie prossime corrispondenze, che saranno dedicate a questo fenomeno. 

È mia opinione che solo radicali cambiamenti della società brasiliana possano sul lungo periodo ridurre significativamente il tasso di violenza. Mi riferisco a un robusto aumento del salario minimo unito alla creazione di posti di lavoro tramite grandi cooperative per la produzione di beni e servizi garantite dallo stato e un’autentica moltiplicazione degli investimenti per scuole e salari minimi per gli studenti minorenni. Al tempo stesso è chiaro che in un momento in cui il Brasile è letteralmente assediato, anche militarmente, da quelle forze sia straniere che interne che si oppongono a qualunque cambiamento di rotta, anche minimo, tutti i candidati alle elezioni si manifestino prudentissimi circa ipotesi di ristrutturazione della società che possano danneggiare i grandi investitori e creare turbolenze sui mercati.

In tutti loro credo sia ben viva l’immagine dell’agonizzante governo Chavez, che nel vicino Venezuela ha osato contrapporsi agli interessi petroliferi e politici nord americani.