Fine di una dinastia di ceramisti: i Cardoso

 

 

di Dulce Rosa Rocque

 

(em portugues)   

  La ricostruzione della preistoria amazzonica è stata possibile, per la maggior parte, attraverso lo studio dei tratti culturali evidenziati nella ceramica archeologica, associati ai metodi di datazione, agli studi linguistici e paleo-ambientali. Basandosi sulle differenze tecnologiche osservate nella ceramica, alcuni archeologi hanno cercato di identificare le aree culturali e i tipi di cultura che le hanno prodotte.  

Nell’Amazzonia brasiliana, la ceramica Marajoara e la Tapajonica sono una piccola dimostrazione dell’accurato lavoro delle antiche tribù indigene che abitavano, principalmente, nell’Isola di Marajó – che si trova nella foce del Rio delle Amazzoni tra i suoi bracci nord e sud – e attorno a Santarem – situata nel Basso Amazonas a 701 km da Belém, bagnata dal Rio Tapajós. Sono artefatti che ricordano quelli etruschi, greci e di altri posti del mondo.

  Queste tribù indigene, che si sono stabilite ai margini del Rio Tapajós e nell’isola di Marajó, hanno dato vita a vere e proprie dinastie di ceramisti. L’arte di questi popoli però correva il rischio di scomparire. Maestro Cardoso, uno degli ultimi rappresentanti di questo esteso lignaggio, ha fatto quello che nessuno si aspettava.

  E’ lui responsabile del riscatto delle tecniche primitive usate dagli indigeni per elaborare la ceramica nella regione amazzonica. Ceramica che, secondo gli studiosi, si è sviluppata a partire dell’anno 1000 a.C. quando ebbe inizio la prima fase della sua evoluzione in Amazzonia.

 

Ceramica Marajoara

 

  Nell’isola di Marajó sono state identificate cinque fasi archeologiche, corrispondenti a livelli di occupazione e culture differenti.

La prima fase è quella del periodo degli Ananatuba (verso il 1100 a.C.), gruppi di agricoltori la cui ceramica presenta una tecnica già pienamente sviluppata, caratterizzata da disegni ben rifiniti e da tratti incisi con ombre. Questo periodo dura fino al 200 a.C., quando scompare in seguito al dominio e all’assimilazione da parte dalla cultura successiva.

Della seconda fase, conosciuta come dei Mangueiras, sono stati rinvenuti utensili di buona qualità, con una grande varietà di forme e tipi, decorati con linee parallele e incrociate. Questa fase dura, all’incirca, fino all’anno 100 d. C.

La terza fase, dei Formiga, è considerata povera dagli studiosi: non presenta uno stile marcato, e la ceramica è di qualità inferiore a quella delle fasi precedenti. Questo popolo è sopravvissuto fino all’anno 400 d.C.

La fase dei Marajoara, invece, nasce da popoli che possiedono un livello socio-culturale più elevato dei precedenti. La complessità e la raffinatezza delle tecniche decorative della ceramica, molto elaborata, dimostra che è prodotta da artigiani specializzati. Vengono introdotti altorilievi e bassorilievi nei vasi domestici e cerimoniali, ma anche in urne funerarie, statuette, tanghe e panche. Verso il 1350 la fase Marajoara scompare, forse espulsa o assorbita da nuovi immigranti.

L’ultima fase, Aruã, è caratterizzata da una ceramica povera, semplice. Soltanto le urne funerarie, considerate come il prodotto più caratteristico di questo periodo, hanno delle incisioni. La scomparsa di questo gruppo tribale è dovuta alla conquista, colonizzazione e catechesi dell’isola da parte dei portoghesi. Scompaiono del tutto all’inizio del XIX secolo.

 

Ceramica Tapajonica

 

La ceramica Tapajonica, o della cultura Santarém, non ha avuto da parte degli studiosi la stessa attenzione dedicata a quella Marajoara. E’ considerata più recente e possiede forme e stili di decorazione differenti, che ricordano il barocco. Si differenzia dalle altre per la libertà di interpretazione del produttore. E’ asimmetrica, caratterizzata dalla ricerca di maggiore realismo e originalità.

La quantità di ornamenti dei pezzi rende poco immediata la loro lettura. C’è una predilezione per la fauna regionale, e questo realismo animalista è uno degli elementi che la differenziano dalla ceramica Marajoara. Un’altra differenza è che non esistono urne funerarie, poiché i Tapajós non seppellivano i propri morti. Questo popolo aveva una cultura completamente differente da quella degli abitanti dell’isola di Marajó.

Le tribù del Tapajós si estinguono nel secolo XVII, anch’esse in seguito a catechesi, schiavitù e malattie.

 

I Cardoso di Icoaracy

 

Di generazione in generazione, tecniche e linguaggio iconografico della ceramica si sono formalizzati tramite le riproduzioni, fino ad arrivare ai giorni nostri. La maggior parte delle ceramiche indigene riprodotte, però, cominciavano ad avere ben poco in comune con gli originali. Mestre Cardoso ha percepito questa distanza e ha deciso di rimanere fedele alla ricchezza culturale dei suoi antenati. 

E' già leggenda. Non solo il suo lavoro, ma lui stesso: Raimundo Saraiva Cardoso ha cominciato a fare ceramica da bambino. Sua madre, Lucila, discendente del popolo Aruã dell’isola del Marajó, produceva pentole, piatti ed altri utensili ed ha trasmesso al figlio non soltanto il suo talento ma anche i suoi segreti.

La leggenda racconta che, da piccolo, Raimundo ha avuto una febbre talmente alta che l’ha fatto delirare. Durante la malattia, incosciente, è uscito di casa sotto la pioggia. In questa occasione gli Encantados (l’equivalente, per gli indios, degli ‘orixas’ baianos, ndr) della foresta rapirono la sua ombra e la restituirono solo a condizione che dedicasse la sua vita alle storie e alle tecniche degli antichi popoli della foresta, a tradurre in arte la fantasia della millenaria cultura indigena.

Lui stesso racconta che durante l’infanzia ha sempre sentito parlare dei miti e delle leggende amazzoniche come, per esempio, quello delle Uiaras che rubavano i bambini che attraversavano il fiume a mezzogiorno. E’ cresciuto, quindi, con le storie degli encantados, cosa tipica della cultura dell’arcipelago del Marajó.

Nonostante avesse fatto soltanto le elementari, Raimundo Cardoso inizia presto a frequentare musei e biblioteche per documentarsi sulla ceramica indigena in Amazzonia per migliorare la sua attività, finché scopre le opere esposte nel Museo Emilio Goeldi, a Belém. La bellezza delle ceramiche Marajoara e Tapajonica lo colpiscono al punto da fargli abbandonare il lavoro che aveva per dedicarsi interamente alla ricerca e riproduzione dell’arte ceramica indigena.

Cardoso parte quindi per la foresta alla ricerca di semi e pigmenti usati come coloranti nei pezzi originali della collezione del museo. Gira per cimiteri indigeni alla ricerca di vestigia delle forme e delle tecniche originali dei suoi antenati. Si dice che sia partito per questa missione raccomandato personalmente dagli Encantados. Questa ricerca gli ha permesso di andare oltre quello che aveva imparato con Dona Lucila, sua madre.

Dopo questo periodo ha avuto l’autorizzazione per riprodurre i pezzi che componevano la collezione del Museo Goeldi, aiutato da tutta la famiglia (moglie e quattro figli) e seguito dagli archeologi del Museo stesso. Un lavoro che è durato due anni e il cui risultato è che le sue repliche si sono meritate certificati d’autenticità nei quali si riconosce la fedeltà agli originali. I cinquanta pezzi realizzati in questa occasione sono riproduzioni così perfette delle ceramiche Marajoara e Tapajonica che è impossibile distinguere gli originali delle copie

Questo suo lavoro ha richiamato l’attenzione di critici europei, americani e giapponesi che hanno organizzato esposizioni in importanti centri mondiali. In Brasile, tuttavia, il riconoscimento del valore artistico di questa opera è limitato; pochissimi progetti ed iniziative hanno tentato di riscattare la grandezza di questo lavoro. Soltanto collezionisti e studiosi molto specializzati hanno dato attenzione alla sua produzione. E’ un peccato che, dopo alcune mostre, la maggior parte delle riproduzioni sia scomparsa e mai più si è saputo che fine hanno fatto.

La soddisfazione che i Cardoso provano quando riproducono l’arte dei loro antenati non è proporzionale al risultato economico. Lo si capisce osservando le condizioni dell’ambiente di lavoro della famiglia . Il figlio Levi, anche lui ottimo ceramista, non ha nessuna voglia di seguire le orme del padre Raimundo. E’ cresciuto vedendo come si approfittavano della disponibilità del padre. La mancanza di riconoscimenti, di incentivi alla produzione, di divulgazione delle opere lo ha demotivato.

Mestre Cardoso però non demorde, parla con tristezza della proposta di fare una scuola per insegnare ai bambini a lavorare la creta. L’idea è stata discussa dai politici locali; hanno fatto tante promesse, però il governo è cambiato e la questione è stata dimenticata. Ma Cardoso continua a pensare che sarebbe un atto molto costruttivo, poiché la ceramica è un elemento creativo della cultura amazzonica. Peccato che non esista una politica governativa specifica che, salvaguardando la memoria, promuova cultura e mercato.

La mancanza di appoggio al lavoro dei ceramisti, forse, è il principale motivo che ha portato gli altri ceramisti di Icoaracy – dove la famiglia Cardoso vive dagli anni ’60 - ad allontanarsi dai disegni originali, molto elaborati, che richiedono quindi molte ore di lavoro.

Secondo Mestre Cardoso “nella fretta della riproduzione, si è persa la tensione alla fedeltà agli originali, semplificando le forme ed i tratti, per facilitare la produzione in serie e la domanda del mercato”. Da artigianato è diventato industria, con riproduzione in serie, fatta in fretta senza i dovuti trattamenti che danno garanzia di solidità. É polemico su questo: “l’artigiano deve essere cosciente che se vende come Marajoara qualunque tipo di vaso ad un turista, vende in verità una falsa immagine della nostra cultura”.

Nel tentativo di riscattare la scienza dei ceramisti primitivi, i pezzi riprodotti dalla famiglia Cardoso dimostrano che, tra le innumerevoli ragioni per preservare l’Amazzonia, esiste anche quella relativa alla espressione artistica dei suoi popoli. Per farlo, però, bisogna avere appoggio economico. Con i soli elogi non si riesce a creare né riprodurre niente, si rischia solo di perdere la memoria storica...  

 

(em portugues)   

 

Fim de uma dinastia de ceramistas: os Cardoso  

 

 

 

por Dulce Rosa Rocque

 

A reconstituição da pre-história amazônica foi possível, na sua maior parte, através de estudo dos traços culturais evidenciados na cerâmica arqueológica, associados aos métodos de datação, aos estudos linguísticos e paleambientais. Baseados nas diferenças tecnológicas observadas na cerâmica, alguns arqueologos procuraram identificar, então, as áreas culturais e os tipos de cultura que a produziram.

   

Na Amazônia brasileira, a cerâmica Marajoara e a Tapajônica são uma pálida amostra do trabalho primoroso das antigas tribos indígenas que ocupavam, principalmente, a Ilha do Marajó (que se encontra na foz do Rio Amazonas entre seus braços Norte e Sul) e Santarém (situada no Baixo Amazonas a 701km de Belém, mas banhada pelo Rio Tapajós). São artefatos que lembram aqueles etruscos, gregos e de outros lugares do mundo.

 

Essas tribos indígenas que se estabeleceram às margens do Rio Tapajos e na Ilha de Marajó fundaram uma verdadeira dinastia de ceramistas. A arte desses povos, manifestação indissociável do homem, corria porém o risco de desaparecer. Mestre Cardoso, um dos últimos representantes dessa extensa linhagem, fez muito mais do que se podia esperar. E’ ele o responsável pelo resgate das técnicas primitivas usadas pelos índios para fazer a cerâmica da região amazônica, a qual, segundo os estudiosos, floresceu a partir do ano 1000a.C., quando teve inicio a primeira fase da sua evolução.

 

 

 

Ceramica Marajoara

 

Na Ilha do Marajó foram identificadas cinco fases arqueologicas, correspondentes a niveis de ocupação e culturas diferentes.

 

A primeira fase é aquela do periodo Ananatuba ( aproximadamente  ano 1100a.C. ) constituida por grupos de agricultores incipientes cuja cerâmica apresenta uma técnica ja plenamente desenvolvida, caracterizada por desenhos bem acabados e por traçados incisos com sombras. Ficaram alí até o ano 200a.C., quando desapareceram, dominados ou assimilados pela fase seguinte.

 

Da segunda fase, conhecida com Mangueiras, foram encontrados objetos utilitários de boa qualidade, com uma variedade de formas e tipos, adornados com linhas paralelas e entrecruzadas. Esta fase dura, mais ou menos até o ano 100d.C.

 

A terceira fase, Formiga (do ano 100a.C a 400d.C.), considerada pobre pelos estudiosos, não apresenta um estilo muito marcante. A cerâmica è inferior aquela das fases anteriores.

 

A fase Marajoara, em vez, è formada por povos que possuim um nível socio cultural mais avançado dos demais. A complessidade e o refinamento da técnica decorativa da cerâmica, muito elaborada, demonstra que foi produzida por artesões especializados. Apresenta técnicas variadas como a introdução de altos e baixos-relevos tanto nos vasos domésticos e ceremoniais como também nas urnas funerarias, estatuetas, tangas e bancos.Nêsse periodo se encontram cerâmicas com variedades de decoração em que as cores preta e vermelha são usadas sobre o branco.

 

Desaparecem aproximadamente no ano 1350 talvez expulsos ou absorvidos pelos novos imigrantes.

 

A ultima fase, Aruã, é caracterizada por uma cerâmica pobre, simples. Sòmente as urnas funerárias, consideradas a característica desta fase, são decoradas. O fim deste grupo, no inicio do século XIX, deu-se a causa da conquista, catequese e colonizaçã da Ilha do Marajó.

   

 

      Ceramica Tapajonica

 

A cerâmica Tapajônica, ou da cultura Santarém, não teve a mesma atenção dedicada à Marajoara, da parte dos estudiosos. E’ considerada mais recente e possue formas e estilo de decoração diferentes lembrando o estilo barroco. Salienta-se das demais pela liberdade interpretativa do oleiro. E’ assimetrica, caracterizada pela busca de um maior realismo e originalidade.

 

A quantidade de ornamentos das peças faz com que a sua leitura não seja tão imediata. Nota-se uma predileção pela fauna regional e é este realismo animalista um dos elementos que a diferencia da cerâmica Marajoara. Outra diferença é que não produziam urnas funerárias pois não enterravam seus mortos. Esse povo tinha uma cultura diferente daqueles que habitaram a Ilha do Marajó

   

As tribos do Tapajós se extinguiram no século XVII, favorecidas pela catequese, escravização e doenças.

   

 

Os Cardoso de Icoaracy

   

De geração em geração, as técnicas e a linguagem iconográfica foram se formalizando através de reproduções, até chegarem aos nossos dias. Porém, a maior parte das cerâmicas indigenas reproduzidas começavam a ter bem pouco em comum com os originais. Mestre Cardoso percebeu isso e resolveu se manter fiel à riqueza cultural dos seus antepassados.

 

Ja virou lenda, não só o seu trabalho, mas êle mesmo: Raimundo Saraiva Cardoso começou a fazer cerâmica que ainda era criança.  Sua mãe, Lucila, descendente do povo Aruã da ilha do Marajò, produzia panelas, potes, pratos e outros vasilhames e transmitiu ao filho, não sòmente seu talento mas seus segredos também.

 

Uma lenda conta que, quando era menino, Raimundo teve uma febre muito alta que o fez delirar. Durante esse período, inconsciente, saiu de casa sob forte chuva; foi nessa ocasião que os ‘Encantados da floresta’(o equivalente, para os índios, dos ‘orixas’ baianos)  se apropriaram da sua sombra e condicionaram sua devolução à dedicação ritualistica às histórias e técnicas dos antigos povos da floresta; a traduzir na sua arte a fantasia da milenar cultura indígena.

 

Êle mesmo conta que durante a sua infância ouvia falar muito dos mitos e das lendas amazônicas como, por exemplo, das ‘uiaras que roubavam as crianças que passavam pelos rios ao meio-dia”. Cresceu, portanto, ouvindo historias dos ‘Encantados’, coisa típica da cultura do arquipélago do Marajó.

 

Mesmo se tinha cursado sòmente o primeiro grau, desde cedo começou a frequentar museus e bibliotecas pesquisando sôbre a cerâmica indígena na Amazônia a fim de melhorar a propria criação, até que descobriu as obras expostas no Museu Emilio Goeldi, em Belém. A beleza da cerâmica Marajoara e Tapajônica o encantou. Abandonou o trabalho que fazia e passou a dedicar-se à pesquisa e reprodução da arte cerâmica indígena.

 

Embrenhou-se na floresta atrás das sementes e dos pigmentos que eram usados como corantes nas peças originais da coleção do museu. Revirou escombros de cemitérios indígenas à procura  de vestígios da forma e da técnica original de seus antepassados. Dizem que partiu para essa missão pessoalmente incumbido pelos “Encantados”.

Foi através dessa pesquisa que o artista conseguiu ir além do que aprendera com D. Lucila.

 

Depois desse período teve então autorização para reproduzir as peças que compunham o acervo do  Museu Emilio Goeldi. Nisso foi ajudado por toda a familia (mulher e quatro filhos) e foi assessorado pela equipe de arqueologia do Museu. Êsse trabalho durou dois anos e o resultado, perfeito, foi que suas réplicas mereceram certificados de autenticidade nos quais se reconhece a fidelidade em relação aos originais. As 50 peças feitas nessa ocasião são reproduções tão perfeitas das cerâmicas Marajoara e Tapajônica que é impossível distinguir os originais das cópias.

 

Êste seu trabalho mereceu a atenção de críticos europeus, americanos, japoneses e foram organizadas exposições em importantes centros mundiais. No Brasil, entretanto, o reconhecimento do valor artístico dessa obra foi limitado. Pouquissimos projetos e iniciativas tentaram enaltecer e resgatar a grandeza daquelas obras; sòmente colecionadores e estudiosos muito especializados deram atenção a sua produção. Pena que a maior parte dessas peças, depois de uma exposição, não foi mais encontrada. Sem alguma explicação foi dada como… desaparecida

 

A satisfação, do ponto de vista interior, que provam ao reproduzir essa arte, todavia, não é proporcional ao retorno financeiro. Isto se nota, inclusive, olhando o ambiente de trabalho da familia, hoje. O filho Levi, também ótimo ceramista, nem sonha em seguir a mesma estrada de pai Raimundo. Está desmotivado; cresceu vendo como se aproveitavam da disponibilidade do pai. A falta de reconhecimento, de incentivo à produção, de divulgação dos trabalhos feitos, o desanimou.

 

Mestre Cardoso porém não desanimou e fala com tristeza da proposta de fazer uma escola para ensinar as crianças a trabalhar o barro.  O argumento foi discutido pelos políticos; fizeram tantas promessas, mas o governo mudou e a questão foi esquecida. Mas êle continua pensando que isso seria muito construtivo, pois a cerâmica é um segmento criativo da cultura amazônica. Pena que não exista uma politica governamental específica que, para salvaguardar a memória, atenda os seus dois eixos básicos: cultura e mercado.

 

A falta de apoio ao trabalho dos ceramistas talvez seja o motivo principal que levou os outros artesãos de Icoaracy - onde vive a família Cardoso desde o final da década de 60- a se afastarem um pouco dos desenhos originais, muito trabalhosos, que requerem portanto muitas horas de trabalho. Diz Mestre Cardoso que “na febre de reprodução, perdeu-se a preocupação com a fidelidade em relação aos originais, simplificando-se a forma e o riscado, para facilitar a produção em série e o atendimento à demanda”. Em vez de artesanato virou indústria, com reprodução em série, produzidas às pressas sem o devido tratamento que garante a solidez das mesmas.

 

Mestre Cardoso é polêmico sôbre isso. “O artesão precisa se conscientizar que vendendo qualquer tipo de vaso para um turista, dizendo que é marajoara, está vendendo uma falsa imagem da nossa cultura”. E’ claro que a sua opção è diferente daquela feita pelos outros artesãos.

 

As peças que a familia Cardoso produz, no tentativo de resgatar a ciência dos primitivos ceramistas, fazem ver que, entre as inúmeras razões para a preservação da Amazônia, existe também aquela relacionada à expressão artística dos seus povos. Para fazer isso porém precisa ter apôio financeiro, só com elogio não se consegue criar nem reproduzir nada, se corre sòmente o risco de perder a memória histórica…