Cingoli, ciclostili e profumo di tè 

Il boom letterario brasiliano 30 anni dopo

 

di Julio Cesar Monteiro Martins

 

 

 

 

Ogni felicità è memoria e progetto.

                                                      (Cacaso, da "Beijo na boca" )

 

       Nel mezzo del cammin di un matrimonio già stanco, ammutolito, logorato da una successione infinita di malintesi, se chiudiamo gli occhi e guardiamo indietro verso il momento del primo incontro, del primo bacio, dei primi giorni passati da soli in un luogo esotico e irreperibile – anche se era lo stesso quartiere in cui vivevamo da sempre – allora ci immergiamo a ritroso nella dolceamara esperienza dell’idillio ricordato. È questo l’unico idillio possibile, perché quello vero, sul momento, non è godibile, è solo una serie di movimenti alla cieca, spasmodici, carichi di tensione, quasi un’ansia, una sofferenza. Ma quell’idillio poi, anni più tardi, sarà infiammato da una nostalgia avida, la saudade, che ci ridonerà con trasparenza il suo autentico contenuto: l’estasi sommersa durante la tempesta.

     L'idillio – questa sorta di stato di grazia condannato alla fugacità – non esiste solo per gli amanti. Esistono idilli per tutte le esperienze della vita, come per il viaggio (idillio con la natura e la cultura), per il lavoro (idillio con la vocazione) e per l’arte (idillio col linguaggio). Ebbene, in questo breve pezzo di storia letteraria cercherò di raccontare in modo molto personale, frammentario e, lo so bene, a volta anche impreciso, il mio idillio con la vita dello scrittore. Rispondo così a un invito della rivista Musibrasil.net, scaturito dai ricordi affiorati alla mia memoria e a quella di Fabio Germinario, direttore della testata con la pubblicazione bilingue delle poesie di Cacaso, scrittore di Rio come me, contemporaneo e complice, morto in giovane età come si conviene ai poeti e ai rivoluzionari.

Questo mio idillio ha una definita cornice storica, la metà degli anni ’70, un luogo, la fascia metropolitana e più cosmopolita del Brasile, che va da Belo Horizonte a Porto Alegre, e un nome ufficiale: il Boom Letterario Brasiliano. A quell’epoca erano già trascorsi – ma erano ancora di freschissima memoria – gli anni più brutali della dittatura militare, quegli del generale Costa e Silva e del generale Medici. Era al governo Ernesto Geisel, generale anche lui, naturalmente (si diceva per scherzo allora che bisognava considerare il Brasile in modo molto “generalizzato”), e anche lui portava gli immancabili occhiali neri degli ufficiali di quei tempi (circolava voce che era perché così il nemico non si accorgeva di essere osservato da loro, mentre la testa puntava verso un’altra direzione). Al contrario dei suoi predecessori della “linea dura” delle forze armate, Geisel sembrava disposto allora ad abolire la pratica della tortura e dell’omicidio di stato e a tollerare i primi barlumi di ripresa della vita democratica. Attorno a lui, una corte sinistra, un’autentica schiera di spiriti maligni in divisa da generale, molti dei quali cospiravano contro il presidente stesso, congetturando su come riportare il paese all’età delle tenebre da cui noi giovani volevamo disperatamente uscire. Si chiamavano Frota, Medeiros, Figueiredo, Mello, Pires, Fontoura, Golbery, Muricy, Lyra, Grunnewald e tanti altri bei cognomi borghesi che suoneranno per sempre terrificanti e luciferini al mio udito, e mi faranno rabbrividire durante le ore profonde del sonno anche nel corso del  nuovo secolo.

La magra e fragile intenzione di apertura del regime sbocciava mentre i musicisti del periodo precedente, da Caetano a Chico Buarque, ma anche registi come Glauber Rocha e Marcos Medeiros, erano ancora in esilio. Per i più giovani che erano rimasti in patria quel barlume era stato sufficiente per ridestare un grande coraggio creativo e un desiderio di partecipare alla vita pubblica, di trasformare lo spiraglio promesso da Geisel in un’autentica porta verso il futuro, se necessario in contrasto con lo stesso Governo. E fu proprio così che avvenne.

Ma quei giovani cosa sapevano fare? Di quali armi disponevano? Sapevano scrivere storie e poesie, non di piú. In qualche caso anche un romanzo, una pièce teatrale. Come si chiamavano? Cacaso o Júlio, come abbiamo visto, e poi Domingos, Chacal, Caio, Ana, Glauco, Barreto, Vital, Emediato, Elías, Tania, Fiorani, Duilio, Leminski, Charles, Brasigóis, Reinoldo, Carlos Emilio, Leila, Roniwalter, Nei, Márcio, Marcia e tanti altri, con le loro rigogliose e ricciute capigliature fino alle spalle, affluivano da tutte le parti del paese verso le capitali del Sud, a volte con un biglietto di sola andata e senza un cruzeiro in tasca.

E come diffondevano i loro scritti? Per prima cosa occorre ricordare che gli editori di allora, a parte il terrore che avevano di cadere nelle grinfie dei censori (in alcune case editrici, come nella Civilização Brasileira, i censori lavoravano “in casa”, come normali impiegati), erano alquanto anchilosati – anche quelli di sinistra – e insensibili ai nuovi linguaggi di quella gioventù, oltre a essere naturalmente diffidenti e deliberatamente ignari del fenomeno letterario che si preannunciava. Erano invece cultori, per esempio, di una certa narrativa amena e giocosa, quella presente nelle crônicas di Rubem Braga, di Fernando Sabino o di Sergio Porto, fiorita circa quindici anni prima in un altro Brasile, quello della Bossa Nova e del Presidente Juscelino, lo statista che sorrideva e ballava il walzer in frac nei salotti di una felice e spensierata “Pompei” politica. Dopo l’irruzione dei carri armati nel 1964, la fonte di allegria che alimentava quelle deliziose crônicas si era spenta, e con essa anche quel genere letterario e quello stile. Ma gli editori ancora storditi non riuscivano a rassegnarsi.

Ebbene, senza case editrici alle loro spalle, come avevano fatto i ragazzi della generazione del boom? Decisero innanzitutto di pubblicare essi stessi le loro cose, o meglio, di stamparle artigianalmente, copia per copia, a volte anche a mano, con disegni diversi per ogni copia, oppure con le fotocopie di allora, con i ciclostili elettrici e quelli ad alcool, i caratteri di un azzurro forte (e quell’odore penetrante ce l’ho ancora oggi nelle narici), per poi venderli o regalarli, quei libercoli, nei ristoranti di una bohème che risorgeva, nei tanti bar all’aperto, sulle spiagge, nelle fiere, oppure inviarli per posta (erano ancora anni di piombo, il Dops e lo Sni, la polizia politica, erano infiltrati da tutte le parti, occorreva perciò una diffusione discreta, un foglio di carta, niente show, niente film, niente spettacolo pubblico...), o lasciarli in vendita nelle librerie – piccole pile sempre accanto al registratore di cassa dei librai più complici, in attesa di lettori altrettanto complici che non mancavano affatto. Questa era la (oggi leggendaria) literatura marginal (letteratura marginale), o literatura nanica (letteratura nana), come la chiamavano quelli del gruppo del settimanale satirico O Pasquim, del quale facevo parte anch’io allora, ultimo arrivato. Oppure la chiamavano, appunto, Geração Mimeógrafo (generazione ciclostile), la quale dietro quella precarietà quasi ridicola di mezzi compieva in quegli anni, alla sua medesima insaputa, il più radicale e profondo rinnovamento della letteratura brasiliana dai tempi del Movimento de Arte Moderna del 1922, del Movimento Antropofágico.

E proprio lì, attorno a quei ciclostili puzzolenti e a quelle spillatrici che ci foravano le dita, nasceva anche il mio idillio, il mio periodo favoloso, in tutti i sensi della parola, un tempo perduto e ora ritrovato. E se vogliamo proprio essere proustiani, era anche un tempo di profumo di patchouli, d’incenso di sandalo, di lavanda sul collo delle ragazze, del sapore del vino caldo nell’inverno di Ouro Preto, cantando insieme al gruppo Maria Déia per dimenticare il freddo, di riso integrale con igname, di cachaça rossa senza nome fatta nei cortili di Minas, ma anche di fettuccine alle tre del mattino nel Baixo Leblon, o di un filetto alla cubana in fondo al ristorante Lamas, insieme ai vecchi giornalisti del clandestino Partito Comunista, o nel Lucas, nell’Edificio Maleta, a Belo Horizonte, o nei bar della Rua Rego Freitas, a São Paulo, vicino al Teatro Opinião, sempre guardandosi attorno, sempre molto affamati, a fare sempre le ore piccole, la madrugada, e nonostante tutto sempre felici, come poi mai più saremmo stati.

Tè alla menta, tè di capim-limão. Profumo di rugiada, di marijuana. Il profumo dei riccioli di una certa Malu, che non ho mai più rivisto. Il sapore delle lacrime raccolte sulle sue labbra in un bacio commosso e in un abbandono assoluto. Non vorrei aggiungere più niente a questo punto. Ho trovato un fotogramma all’altezza dell’idillio. Ma torniamo alla letteratura.

La letteratura, si sa, non è solo testo, è anche una comunità, i suoi templi e i suoi riti. È proprio la forza delle sinergie che si sviluppano dentro una comunità letteraria e nei rapporti col suo pubblico che alla fine fa emergere i talenti individuali, i quali altrimenti verrebbero artisticamente abortiti, e si sarebbero dispersi per altre strade. Quella fase della storia brasiliana aveva una comunità in attività febbrile, che celebrava quotidianamente i suoi riti. A partire del 1975, quando un nuovo pubblico, avido di informazioni che non fossero solo le menzogne trasmesse dalla propaganda di regime, si era finalmente appassionato al nuovo fenomeno, e ogni settimana apparivano nuove riviste letterarie, che riscuotevano un successo tale da essere vendute nelle edicole e non solo nelle librerie, con tirature di migliaia di copie per ogni edizione: si chiamavano Ficção, Escrita, Inéditos, O Saco, Protótipo, Teia, e tante altre. Nel 1976, l’industria editoriale si rese conto a sua volta dello stato delle cose e cominciò a investire in quella nuova generazione. Per esempio, la casa editrice Codecri, appartenente a O Pasquim, pubblicava la collana Histórias De Um Novo Tempo (Storie di un tempo nuovo), con 12 racconti di 6 giovanissimi autori, tutti al di sotto dei 25 anni, che in una settimana vendette circa 30 mila copie, un record mai più uguagliato da autori esordienti in Brasile. I nomi: Caio Fernando Abreu, Luiz Fernando Emediato, Domingos Pellegrini Jr., Jefferson Ribeiro de Andrade, Antonio Barreto e io stesso.

Un po’ più tardi la professoressa Heloisa Buarque de Hollanda, che già promuoveva in casa sua a Rio un salotto letterario d’avanguardia frequentato tra gli altri da Chacal, Ana Cristina Cesar, Cacaso, curava la collana di poesia 26 Poetas Hoje (26 poeti di oggi), che ebbe una grande risonanza sulla stampa e fece conoscere un’intera generazione emergente di poeti, anche se le scelte compiute allora dalla professoressa erano troppo personali e privilegiavano soltanto una delle tendenze in atto nel Paese, quella cioè della poesia minimalista, underground (“udigrudi”, si diceva per scherzo allora), a scapito della corrente più impegnata politicamente e di quella che perseguiva un rinnovamento della potente vena lirica della tradizione, creando cosí una spaccatura insanabile che ancora oggi è una ferita aperta nella vita poetica brasiliana (si diceva allora che il “territorio brasiliano” coperto dalla collana di Heloisa cominciava all’Arpoador e finiva all’Avenida Niemeyer, ossia gli estremi della spiaggia di Ipanema, e basta).

Comunque, a quel punto l’esplosione, il boom si era già consolidato, e per la prima volta non era la musica, l’architettura o il Cinema Novo ad occupare un posto di rilievo tra le arti nei gusti del pubblico e nelle attenzioni della stampa, ma il nuovo veniva proprio da dove non si sarebbe potuto aspettare, dai giovani scrittori in un paese che leggeva – e legge tuttora – poco e male. La grande resistenza a quella cultura di destra che aveva ipnotizzato i ceti medi negli anni precedenti veniva dalle lettere, viste fino ad allora dalla gente come la più conservatrice tra le forme di espressione. E per quattro brevi meravigliosi anni fare lo scrittore in Brasile significava fare il rivoluzionario totale, nel contenuto ma anche nella forma, e capovolgere i concetti dominanti e la gretta cultura piccolo-borghese, che si cullava nell’illusione di un “miracolo economico” allestita dai militari.

Ma prima di raccontare cos’è successo alla fine del quadriennio, vorrei aggiungere ancora alcune cose su quell’età dell’oro. Tra i riti di cui parlavo, c’era anche quello della lettura e del pubblico dibattito di testi di poesia e di narrativa all’interno delle università; un fenomeno non promosso dai docenti, bensì dagli allievi stessi, tante volte contro lo stesso orientamento repressivo dell’università, e non di rado anche in segreto. Questo forse spiegava in parte la presenza sempre numerosa degli studenti, seduti sul pavimento o in piedi nei corridoi, a sentire noi, gli autori con cui si identificavano, improvvisate e incerte pop star, che presentavamo con voce sempre appassionata i nostri testi inediti o conosciuti. Insieme a Cacaso, per esempio, ho partecipato a dei pomeriggi di lettura alla Pontíficia Universidade Católica, e alla Universidade Federal Fluminense, a Niterói, e poi alla Federal di Rio. E si leggeva anche sotto un grande tendone aperto prima vicino alla spiaggia di Arpoador e poi ai piedi dell’acquedotto di Lapa, il Circo Voador (Circo Volante), con la presenza di centinaia di giovani cariocas. Ma soprattutto nelle piccole librerie alternative della città, in una atmosfera da cave parigina, con tanto di fumo, musica jazz e sguardi complici. Erano la Folhetim, la Muro, la Leonardo da Vinci, la Dazibao, la Pasárgada, e poi la Contexto, la Xanan, la Timbre del barbuto, corpulento e attento Aluísio Leite, che è rimasto nel ricordo come una sorta di libraio-simbolo di quel periodo, anche se in verità si è “alzato in volo” al tramonto di quella splendida giornata.

Ana Cristina Cesar, amica di Cacaso, scoperta da Heloisa, poetessa carioca bionda e bella, reticente nel parlare e nello scrivere, sempre così seria e sensibile, è stata forse “l’uccellino nella miniera” di quel percorso. E forse avvertiva inconsciamente l’esaurimento di un’epoca, la nostra infanzia letteraria dorata, e un giorno smise di parlare, o cominciò a pronunciare ininterrottamente un discorso inconcludente, non ho mai capito bene cos’era accaduto, infine venne ricoverata in un manicomio. Qualche mese dopo ne uscì, apparentemente rasserenata, “guarita”, i genitori la riportarono a casa, un appartamento al decimo piano, e aperta la porta, proprio di fronte a loro, prese una rincorsa e si buttò dalla finestra senza dire una sola parola. Aveva poco più di vent’anni, ma fece in tempo a lasciarci la bella ed enigmatica raccolta A Teus Pés (Ai tuoi piedi).

Occorre aggiungere per correttezza intellettuale che quegli anni non furono caratterizzati solo dalle nostre storie, e prima che sia accusato di troppe imprecisioni vorrei aggiungere che non mancavano anche gli scrittori più affermati, ed erano quelli che trascinavano i lettori. In ordine di preferenza all’epoca, João Antonio, José Louzeiro, Wander Piroli, e poi Rubem Fonseca, Clarice Lispector, Lygia Fagundes Telles, Luís Vilela, Ignácio di Loyola Brandão e tre grandi vecchi; Drummond, Jorge Amado e Érico Veríssimo, che in Incidente In Antares faceva risvegliare i morti rimasti insepolti per uno sciopero dei becchini, al fine di compiere quella Rivoluzione che effettivamente cercavamo di avviare nel paese. Ma che nonostante tutti quei libri straordinari non è stata fatta, e probabilmente non lo sarà mai. Sono i limiti della letteratura, limiti che noi allora non conoscevamo, o non volevamo conoscere. E così una letteratura che per un attimo si era creduta onnipotente era stata scavalcata dalle forze della politica, non quella desiderata, ma quella possibile.

L’amnistia per gli esiliati ufficiali della dittatura, nel 1979, e il ritiro delle leggi eccezionali, tra le quali quelle della censura e l’Atto Istituzionale n°5, una specie di stato di assedio permanente, rimescolò nuovamente le carte. Gli interventi politici e le proposte dei reduci dall’esilio, i programmi giornalistici della TV, le biografie dei personaggi della storia recente del paese e i talk-show diventarono in breve il discorso egemonico, e a partire dal Verão da Abertura (l’estate dell’apertura politica), a cavallo tra il 1979 e il 1980, la poesia e la narrativa brasiliana vennero brutalmente messe da parte, come un paravento ingombrante e fuori moda, le case editrici chiudevano nuovamente le loro porte a chi non scrivesse direttamente e senza “orpelli di stile” sulla realtà, mentre anche sulla stampa, fino a quel momento così attenta, cadeva un pesante sipario di silenzio.

Mentre scrivo queste righe sono già passati quasi trent’anni e da quell’imprevista tenebra la letteratura brasiliana non si è mai più ripresa. È diventata da allora come una nicchia, coltivata da pochi, ininfluente dal punto di vista sociale e culturale, ignorata o derisa da quella stessa stampa che alla nascita l’aveva incensata. Dopo i libri biografici, passò la moda dei libri di self-help e di esoterismo fasullo, di magia, oppure arrivò il turno dei testi scritti dai comici e dai personaggi di successo televisivo: collane di barzellette e di pettegolezzi occupano ancora oggi lo spazio lasciato vuoto negli scaffali. Praticamente nessuna delle opere di quel periodo magico è stata ristampata, e oggi è solo possibile trovarne, forse e con un po’ di fortuna, qualche copia ingiallita e spiegazzata nei sebos, gli antiquari di libri usati.

E agli autori cos’è successo? Tanti, ma proprio tanti di quei giovani sono morti prematuramente, suicidi, di Aids, di pazzia, di overdose, di delusione: Caio, Ana Cristina, Cacaso, Torquato, Leminski... Altri lasciarono il paese in un esilio anonimo, non-ufficiale, senza il prestigio e il riconoscimento dei nobilitati esili di allora: Sergio Kokis, Teresa Albues, io stesso. Altri sono rimasti, ad invecchiare dietro alla scrivania di un giornale o di un ufficio, e a questi ultimi non piace nemmeno la semplice menzione di quell’avventura, come se fossero sopravvissuti a un naufragio o a un olocausto (ma in verità sono tanti i modi di vivere interiormente un naufragio o un olocausto...). Pochi invece hanno continuato a scrivere, a inseguire la chimera di una carriera letteraria, a perseguire un miraggio. Quel che resta è il fatto di aver comunque vissuto per un attimo l’idillio con la Storia. E anche questo non è cosa da poco. Ma fermiamoci qua. Non possiamo concederci il lusso di bruciare, nel consolarci, l’energia del cambiamento. E ce ne vuole poi cosí tanta...

Alla fine mi è rimasta impressa un’immagine, quella di un giovane sconosciuto, seduto qualche sedia davanti alla mia nel traghetto che da Niterói ci portava a Rio de Janeiro attraverso la baia, mentre all’improvviso estrae dalla sua borsa a tracolla un libro, il mio primo libro, Torpalium, e si mette a leggerlo ignaro del fatto che l’autore sedeva alle sue spalle. Era il 1977. La palpitazione generata in me da quella visione la sento ancora oggi solo al ricordo: l’epifania, la visione di un miracolo, quello sdoppiarsi in un altro essere fatto di carta e inchiostro, fatto di parole e di idee, fatto di noi stessi, insomma. Sono immagini che oggi mi ridanno energia, invece di sottrarmela. E se pure non fossero in grado di farlo, avrei comunque dentro di me ancora una riserva di quei baci languidi al profumo di lavanda... e bastano quelli per continuare a vivere.

 

 

 Julio Monteiro Martins, scrittore e intellettuale brasiliano, ha pubblicato una decina fra romanzi e racconti, ma si è sempre occupato di scrittura creativa, maturando esperienze d'insegnamento prima nella patria del "creative writing" - gli Stati Uniti – poi da pioniere in Brasile, in Portogallo e infine in Italia. Attualmente dirige la scuola di scrittura Sagarana a Lucca.