Tribalisti, ma non Tropicalisti

Tra estasi scomposte e immancabili detrattori, proviamo a
fare il punto sull'attesa prova del trio Monte-Antunes-Brown

 

di Giangiacomo Gandolfi

 

   Tribalisti, si sa, fa rima con tropicalisti. In più è assolutamente evidente che titolare con un –ismo un album e un supergruppo (sia pure transitorio) è il modo più sfacciato per lanciare un nuovo movimento artistico, flirtando con le avanguardie storiche del secolo passato. Questo per giustificare una sana dose di cautela e sospetto nell’avvicinarsi al nuovo cd prodotto (e coordinato) da Marisa Monte. Non si tratterà di un passo falso? Di una ambizione smodata e prematura? Dell’ennesimo tentativo fallimentare di cercare un seguito artistico pestando i piedi all’arrancante Max de Castro con la sua “Jovem Vanguarda”, ai corsi e ricorsi storici del Samba-rock, al sempreverde manguebeat, all’elettrobossa, elettroforrò, elettro-quel-che-vuoi?

Allo stesso modo, leggere l’intervista di Nelson Motta ai magnifici tre (disponibile su www.tribalistas.com.br) insinua l’inquietudine: Doces Barbaros redivivi? Tribalistas che nascono dalla radice tres/tri? Leziosi ammiccamenti al villaggio globale di Mc Luhan e alla poesia di Oswald de Andrade in un contesto di canzoni d’amore un po’ sciocchine? E allora, mentre si ordina il cd e si cerca avidamente di scaricare l’mp3 che occhieggia beffardo e viene torpidamente snocciolato a un bit al minuto, perché non navigare in rete ed annusare gli umori dei pubblici più vari? Perché si entra in una giungla infernale di preconcetti e giudizi secchi ed apodittici, di antipatie e simpatie viscerali, ecco perché.

Sentite qui: “Marisa Monte sta soccombendo alla forza delle droghe. A forza di accompagnarsi a gente come Mano Brown e Arnaldo Antunes ha disimparato il portoghese”, “Tribalistas è un piatto ricco per chi confonde pose con mentalità, trovate di bassa lega con creatività, eclettismo con mescolamento”. Ecco, gli estratti delle liriche qualche ansia la danno, anche considerando che in tempi recenti Carlinhos è stato fatto oggetto di un fitto lancio di bottiglie di plastica sul palco e Arnaldo flirta spesso con un “ombelichismo” cerebrale (neologismo trovato in rete), sul sottile filo del rasoio tra genialità e irritazione (indotta nell’ascoltatore). Non per nulla ambedue sono amati e odiati in egual misura dal turbolento pubblico brasiliano.

Ma poi, di fronte alla musica dell’album che si diffonde dagli altoparlanti dello stereo, i dubbi si sciolgono, le perplessità si ridimensionano. Diciamolo subito chiaramente: Tribalistas è un bel disco, anche se non sono moltissimi i momenti davvero storici e memorabili. E’ un lavoro curato con amore del dettaglio, con semplicità casalinga e grande attenzione all’insieme più che all’individualità dei tre solisti. E’ un quasi “acustico” assai omogeneo nelle sonorità, fatto di incontri naturali e armonici tra stili musicali e interpretativi differenti, con le percussioni di Brown che si dilatano all’infinito, la poesia concreta e ritmica di Antunes che contrappunta, i deliziosi gorgheggi della Monte che amalgamano e impreziosiscono. Soprattutto è uno scambio di emozioni e affetto tra artisti in sintonia, legati da un’amicizia quasi palpabile e da una sorridente, ecumenica brasilidade di fondo.

L’approccio è gentile, non invadente, e la pretenziosità di cui il trio è ripetutamente accusato è un rischio calcolato con serenità, temperato dalla coscienza della transitorietà della musica popolare, da un carpe diem anti-individualista: “l’allegria quotidiana del vivere insieme” come dice Antunes. Marisa Monte ha più volte giustamente sottolineato questa atmosfera di intimità e complicità quasi fisica, paragonando l’album a un’ostia, una comunione creativa. Tutte cose che il dvd e lo show della Globo girato durante la registrazione mostrano con chiarezza ed empatia. In un certo senso Tribalistas è anche, paradossalmente, un non-manifesto che si atteggia con ironia a manifesto, una riaffermazione del valore della diversità culturale e il tramonto dell’idea di un “futuro con un cammino unico” (parole di Antunes), un progetto che non a caso trae linfa dall’inesausta spinta creativa del tropicalismo.

Nessuna aggressività perturbante quindi, nessuna rottura violenta con la tradizione. Se non fosse per il retrogusto iconoclasta di alcune liriche dell’ex-Titas (“L’amore è brutto /…/ sembra immondizia /…/ l’amore è sporco / ha odore di piscio”) e per alcuni (pochi) eccessi verbali chiaramente ascrivibili al baiano (“Mary Cristo/Mary Mary/Cristo Cristo/Mary Mary” giochino kitsch e ingenuamente sincretistico a metà strada tra Hare Krishna e Merry Christmas), si potrebbe parlare addirittura di conservatorismo musicale. D’altronde, dopo una spasmodica attesa dei fan durata mesi, con poche notizie che filtravano centellinate dalla casa-studio di Marisa in cui si svolgevano le registrazioni, l’album può già vantare un hit radiofonico (la rockeggiante e orecchiabile “Ja sei Namorar”), un paio di remix e l’approvazione incondizionata di non pochi estimatori. Chi temeva l’effetto destabilizzante ed elitario del contributo di Antunes è dunque smentito, così come chi prevedeva un flop catastrofico nelle vendite.

Ma i veri passaggi chiave del disco sono altri, quelli appunto apertamente in omaggio della grande tradizione mpb, senza velleità di modernismo a tutti i costi: “Carnalismo”, una valsa dolcissima e quasi pixinguiana, “Pecado è lhe deixar de Molho”, una raffinata e malinconica bossa “misturada” con il samba-cançao, la sognante e velosiana “Là de longe”, la delicatezza  pop di “E’ Voce”. Collaborano con il trio, anch’essi con postura programmaticamente “low-profile”, Cezar Mendes alla chitarra, Dadi al piano, bandolim e altri strumenti, Alè Moraes come fonico e responsabile della discreta filtratura elettronica. Tutte luci e nessuna ombra dunque, a dispetto degli schiamazzi internettiani? Non proprio, ahimè. Le note stonate ci sono e piuttosto gravi. La prima è che un consistente numero di copie distribuite dalla EMI sono state stampate a partire da un master difettoso. Con il clamoroso risultato di contenere, al posto di “Velha Infancia”, “Anjo da Guarda” e “Ja sei Namorar”, una manciata di brani dal vivo degli ExaltaSamba. Il primo errore di queste dimensioni nella storia dell’industria discografica brasiliana. Potete immaginare lo sconcerto degli sfortunati acquirenti e i frizzi e i lazzi degli internetnauti più critici e sarcastici, che azzardano paragoni impietosi tra i due repertori eterogenei.

La seconda è invece più allarmante. “Tribalistas” è uno dei primi cd audio brasiliani con protezione anticopia, che la Emi ha recentemente messo a punto per combattere la pirateria. Con esiti disastrosi: qualunque pirata -anche il più sprovveduto- si fa beffe del software incorporato, mentre il povero acquirente (che ha sborsato una cifra molto alta per il mercato brasiliano) non puo’ convertire in mp3 sufficientemente ben campionati i brani pagati a caro prezzo, non può ascoltare l’album in alcuni lettori (ad esempio in una buona parte dei car stereo) e assiste impotente, quando inserisce il cd in un sistema Windows, all’autoinstallazione di un programma autonomo che lancia i brani senza chiedere alcuna autorizzazione. Un disastro insomma, sia sul piano pratico che sul piano delle questioni di principio (è giusto combattere la pirateria combattendo indiscriminatamente il formato mp3?). Da musicisti di questo livello, che fanno costantemente mostra di grande cultura e sensibilità artistica, politica e sociale, è lecito aspettarsi una maggiore consapevolezza su un tema del genere. E’ giusto pretendere un maggior rispetto per il consumatore.

 

Immagini della registrazione del disco tratte dal sito della casa discografica Emi (http://www2.uol.com.br/tribalistas/home.htm)