Quando Chico incontrò Morricone

 La ristampa del leggendario “Per un pugno di Samba” porta alla
luce  un inedito, toccante  incontro tra  due  giganti  della musica

 

di Giangiacomo Gandolfi

 

   Se è concesso un piccolo vezzo al recensore, vorrei fare una confessione iniziale. Consiste in questo: il primo lp che comprai di mia spontanea volontà, alla tenera età di 11 anni, era una raccolta Rca di temi da film di Ennio Morricone. Ascoltai e riascoltai quel disco decine di volte, e fu in qualche modo il mio viatico al mondo della musica. Un’introduzione certamente anomala ma di altissimo livello qualitativo, che avrebbe segnato inevitabilmente tutti gli ascolti successivi. I lettori possono dunque comprendere l’impatto che ha avuto in me, a 25 anni di distanza, l’ascolto di questa perla riemersa inopinatamente dal passato, in cui un fior di compositore come Morricone incontra uno dei massimi cantori della brasilianità. Non aspettatevi dunque grande obiettività o imparzialità: troppi ricordi personali, echi del passato, atmosfere nostalgiche. “Per un pugno di Samba” ci riporta in pieno 1970, sulla Nomentana alle porte di Roma, nell’ambiente ricco di fermenti in cui si incontravano amichevolmente Sergio Bardotti, Vinicius e Toquinho, Sergio Endrigo, Luis Bacalov, Lucio Dalla, Astor Piazzolla e, appunto, Ennio Morricone e Chico Buarque. Tempo di esilio per molti artisti sudamericani e tempo di incontri stimolanti per i nostri musicisti, che cominciavano da poco ad uscire da un ghetto nazionale fatto di melodie post-melodramma e urlatori smaniosi di nuove sonorità rock.

In questa piccola oasi romana si sviluppa l’embrione di una terza via per la nostra canzone, già imboccata da Gino Paoli e Luigi Tenco, la via di un canto confidenziale che evita gli eccessi di un Claudio Villa e, pur nella sua ingenuità provinciale, si apre al mondo esterno senza ricalcare pedissequamente il modello angloamericano. In questo contesto matura anche l’incontro tra il fuggitivo Chico (per 15 sofferti mesi in Italia con Marieta Severo, lontano dall’opprimente censura dei militari brasiliani) e la stella emergente di Morricone, già esploso come autore di colonne sonore grazie al successo dei film di Sergio Leone.

I due artisti rappresentano mondi certamente distanti, ma il naturale buongusto che li accomuna e la costante apertura di Morricone alle sonorità della musica popolare rende la collaborazione di estremo interesse. Un interesse non puramente documentario, nonostante molti critici brasiliani abbiano storto il naso di fronte alla ricercatezza degli arrangiamenti e al pesante uso di organo e archi “d’atmosfera”, bollando il lavoro come un tipico album di samba registrato da gringos.

Non si può negare che il disco sia frutto di un’epoca, e che certe convenzioni traspaiano con tutta evidenza, rendendo l’album ineguale, ma resta il fatto che la maggioranza dei brani funziona in modo eccellente e non si limita a proporre un Chico in salsa “spaghetti western”.

Il repertorio scelto è quello dei primi tre dischi editi dal cantautore brasiliano (a eccezione di tre brani che anticipano l’lp successivo), già ricchi di capolavori assoluti: Morricone tratta il materiale con delicatezza, ricalcando spesso rispettosamente gli arrangiamenti originali, ma aggiungendo il suo tocco inconfondibile e come “sospeso” all’impasto sonoro.

I punti più alti sono “Samba e Amore”, con i suoi archi eterei ed eleganti, “Lei no, lei sta ballando” (la splendida “Ela desatinou”) con la vocalist Edda che dà un sapore di spezie dolceamare all’impeccabile ordito vocale e strumentale, lo struggente e sognante “Il nome di Maria” (“Nao Fala de Maria”) e “Queste e quelle” (“Umas e Outras”), in cui Chico sfodera la sua consueta sensibilità quasi femminile in un drammatico doppio ritratto di donne (santa e peccatrice).

Sono tutti bravissimi: Buarque con voce intonatissima e ben registrata, “I cantori moderni” di Alessandroni che intervengono nei momenti corali, il giovane Irio De Paula gia’ session-man negli studi romani, l’orchestra di Morricone, il percussionista Mandrake del gruppo di Elza Soares. Lascia invece parecchio a desiderare la traduzione dei testi ad opera di Sergio Bardotti, a quell’epoca produttore di grido e talent-scout di buon fiuto ma di certo non un poeta: discutibile la “Roda viva” che diviene “Rotativa”, ad esempio, e un “Quem te viu quem te ve’” sradicato dal suo ambiente naturale, con la passista orgogliosa che diventa una borghese snob frequentatrice del San Carlo e della Scala (sic!). Ma le liriche di Chico sono così intense che anche la traduzione a tratti approssimativa passa in secondo piano e il talento prorompente del giovane carioca già mette in chiaro che si tratta dell’ascesa di un vero e proprio gigante della scena musicale internazionale.

Lode dunque alla Bmg brasiliana che ha recuperato i master originali della Rca e ristampato l’album con attenzione filologica (copertina e note originali), facendo la gioia dei collezionisti. Il disco era praticamente introvabile sia in Italia che in Brasile e si sussurra che lo stesso Chico non ne possedesse neanche una copia.

Non che si sia mai dimostrato particolarmente addolorato per questa mancanza: Francisco Buarque de Hollanda non ama rammentare il suo passato italiano. Fu un periodo drammatico, di grandi difficoltà economiche e paura per le minacce della dittatura, di cui si ricorda una tournèe in compagnia di Josephine Baker e Toquinho, un secondo disco in italiano per il mercato locale e la frequentazione con Lucio Dalla, di cui avrebbe tradotto “Quattro marzo 1943” (“Minha Historia - Gesu’ Bambino”).