La forza della partecipazione

Colloquio con Ermanno Allegri, missionario in Brasile e testimone dei
cambiamenti  politici  e  sociali  da  qualche  tempo  in  atto  nel  paese

 

di Marcelo Rasera

    Giunto in Brasile come missionario nel lontano ’74, Ermanno Allegri ben presto si rende conto di quanto sia necessario cambiare radicalmente la propria idea di missione per riuscire a mettersi in contatto con la realtà della gente. Trascorre 12 anni in Bahia, la maggior parte dei quali nell’interno arido e sprovveduto, i successivi 5 anni nel cuore del Brasile, nello stato del Goiás, e attualmente risiede nel Ceará, dove, tra altre attività, è direttore dell’agenzia di informazioni "Frei Tito de Alencar per l’America latina" (Adital), il cui sito svolge la funzione di portale per i settori ecclesiastici che fungono da supporto ai movimenti popolari, etnici e alle minoranze dell’America Latina. Italiano naturalizzato brasiliano, Ermanno Allegri svolge un ruolo attivo anche sul fronte politico nei movimenti di base che appoggiano e eseguono le azioni sociali lanciate dell’attuale governo di Luiz Inácio Lula da Silva. Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Milano, dove si è recato per un breve ed indaffarato soggiorno in Italia. La determinatezza e l’energia della sua fede hanno eclissato completamente la fatica del lungo viaggio e Allegri è già pronto a rispondere alla nostre domande.

Come è iniziato il suo percorso umano e religioso in Brasile?

«All’inizio ho passato molo tempo nelle zone interne di Bahia, a mille chilometri da Salvador, dove ho cominciato a lavorare con la Pastorale della terra, che è nata nel ’75. Ho vissuto il periodo in cui la chiesa in Brasile ha imboccato la direzione verso le problematiche sociali. Sono partite da lì le comunità ecclesiastiche di base, l’impegno sociale della Chiesa come carità. Tutto ciò fu molto inspirato dal libro sulla teologia della liberazione scritto da Gustavo Gutierrez nel ’71, che faceva una riflessione su quello che stava avvenendo e nel quale si percepiva già una nuova visione dei problemi della realtà».

Che cosa ha da insegnare il popolo brasiliano nella risoluzione dei suoi problemi sociali?

«Io penso che il Brasile, da un certo periodo in poi ha avuto un’intuizione che non è il risultato di una riflessione meditata, ma il risultato di una pratica. Con il tempo si è imparato a ottenere il massimo da quel poco che c’è. Ci si è accorti di come molti progetti che iniziano a livello popolare ed ecclesiale cominciano dal niente. La necessità
di agire e la percezione della necessità di cambiare situazione portano a uno sfruttamento massimale delle poche risorse a disposizione. Vi è anche uno sforzo, che possiamo definire come ecumenismo ampio, di lavorare insieme ad altre religioni e che riesce a mettere insieme persone di fedi diverse. Una situazione che in Europa è invece più difficile da realizzare. In Brasile, per fare un esempio, neanche si immagina di organizzare in una città o in un quartiere una biblioteca per protestanti e un’altra per cattolici. E questa mentalità si estende anche  a quelle che sono definite come "superstizioni". Per una persona che possiede già schemi propri, è difficile accettare le diversità, e finisce per condannarle. Invece il Brasile cerca di trarre vantaggio dalle differenze, che sono viste spesso come una risorsa. Si cerca di cogliere ciò che le persone possono e sanno dare. Nei progetti che si fanno in periferia e nell'interno del paese, questo è diventato un atteggiamento molto comune». 

E ultimamente, sono emerse delle novità?

«Ora c’è un fatto nuovo che è la vittoria del presidente Lula. Lula non è soltanto il frutto di una elezione. Lui stesso ha dichiarato di essere il risultato di un processo durato venti anni. Io noto che in Italia, anche tra i miei amici, quando si comincia a lavorare a un obiettivo si deve già sapere dove si vuole arrivare per poi mettere tutti i mezzi a disposizione. Ecco, in Brasile si comincia da niente. È chiaro che occorre avere prospettive a lungo termine, ma io credo che i cambiamenti duraturi debbano essere il risultato di un processo che quando si comincia non si sa dove può portare. Penso che i movimenti popolari non dovrebbero essere fatti di avanguardie, ma dovrebbero essere ampi, costituiti da molta gente, che prende coscienza. Il movimento del ‘56 di Francisco Julião, delle leghe contadine nel nord est arido del Brasile, neanche immaginava dove avrebbe potuto portare quando è cominciato. Difficile crederlo, ma è nato con una lotta per il diritto alla gente di essere seppellita in una cassa da morto e non gettata sotto terra come animali. Questa era la necessità della gente. Bisogna cominciare da cose che la gente capisca, dalle loro esigenze».

In un certo senso il Brasile è sempre stato più inerte di altri paesi latinoamericani nella lotta sociale, paesi che hanno avuto anche movimenti popolari di lotta armata. Il Brasile può essere considerato un esempio di lotta pacifica riuscita?

«C’è una frase di Frei Betto che dice che Lula è arrivato al governo senza sparare neanche un colpo. Io penso che quando c’è la percezione di un risultato sociale a cui si voglia arrivare, quello che interessa è il risultato, che in questo caso era il voler arrivare a un governo popolare per avere una società nuova non escludente. Qual è il modo per arrivarvi effettivamente? Ecco, in Brasile esiste quasi una sorta di allergia a organizzare, per esempio, una guerriglia, che comunque vi è già stata nella regione dell’Araguaia, negli Anni '60, senza coinvolgere che qualche centinaio di aderenti. Credo che il Brasile sia riuscito a fare un discorso più umano, rivolto alle persone. L'ho notato nell’ultimo incontro che abbiamo organizzato insieme a più di cento entità della società civile come chiese, sindacati, partiti, Ong. Ci siamo accorti che il governo siamo noi. Una donna diceva che se il programma Fame zero fallirà, saremo noi ad avere fallito, non sarà per colpa di Lula. Se invece funzionerà non sarà Lula ad aver vinto, ma saremo noi. Stiamo cambiando la nostra cultura, la nostra ottica, perché questo programma richiede una convergenza di vari progetti che sono salute, cultura, lavoro, partecipazione di qualunque cosa vi sia sulla piazza. Un atteggiamento che aiuta la gente a crescere, a formarsi: per questo in Brasile si utilizza molto il termine «conscientizacão» (prendere coscienza, ndr) e «organizacão» (organizzazione, ndr). Perché una società civile cosciente e organizzata è la vera rivoluzione che cambia la struttura di fondo del paese, e ciò succede quanto si mettono insieme progetti di riforma agraria, di riforma sociale, di sradicamento dell’analfabetismo». 

Ma come si arriva a raggiungere questo obiettivo?

«Non certo attraverso un decreto del presidente della repubblica che elimina la povertà e i problemi. Necessita una serie di lavori concreti e anche di persone che si mettono a disposizione. Una donna mi raccontava di aver appreso che 70 dipendenti della segreteria di educazione dello stato di Ceará erano analfabete, tra funzionari, portinai, inservienti e addetti alle pulizie. Era assurdo che proprio nella segreteria della educazione vi fosse un quantità così grande di analfabeti. E mi ha raccontato che la settimana scorsa hanno riunito queste persone conferendo loro, in una grandiosa solennità, il diploma. È questo che Lula sa che deve fare: mobilitare la gente e non risolvere i problemi per decreto. Lula capisce che il suo governo è il risultato di un processo di mobilitazione e partecipazione, e se vuole arrivare a risultati deve avere l’appoggio della società civile, che di fatto partecipa ai programmi esistenti. Se osserviamo il risultato delle rivoluzioni portate dalle guerriglie armate in America latina, vediamo tanti fallimenti, nel senso che dopo le vittorie la società non è cambiata. In Salvador alcuni capi della guerriglia del passato oggi sono i capi della repressione. Allora io mi chiedo, in merito ai risultati sociali, si riesca a cambiare la gente perché si ha una mitragliatrice in mano oppure se lo si può ottenere facendo crescere le persone... In questo senso in Brasile può insegnare molto, come prospettiva per l’America latina. Questa è una speranza che non si può bruciare. Non possiamo permetterci di perdere questa opportunità. Quando viaggio per l’America latina mi accorgo che esiste una speranza, una aspettativa molto grande rispetto al governo brasiliano. «Lula tem que dar certo», deve ottenere risultati. Perché se il Brasile va avanti, è facile che trascini una serie di altri paesi. E i risultati già si cominciano a vedere. In Bolivia, la sinistra è arrivata vicina alla vittoria, e probabilmente vincerà le prossime elezioni». 

Lei ritiene che le prese di coscienza stiano avvenendo, oltre che tra gli esclusi, anche nelle classe dominanti?

«Anche i settori imprenditoriali stano cambiando. Ci sono tante aziende che finanziano il programma Fame zero. Il Forum sociale mondiale di Porto Alegre è stato finanziato in gran parte dalla iniziativa privata. Ci sono persone in questo settore che capiscono che il Brasile deve cambiare radicalmente non solo per motivi economici, ma perché ha realmente bisogno di un cambiamento per diventare un paese più giusto. In una riunione ho sentito un imprenditore dire: «Perché non chiamiamo la società per aiutarci a risolvere questo problema?». Vuole dire che c’è una mentalità nuova, e non solo d’interesse. Però sarebbe ingenuo pensare che il Brasile è tutto così. Ci sono settori che escludono, di natura razzista, contro i poveri, contro i neri, contro chi è di religioni differenti. Questo esiste ancora. C’è anche una parte sociale interessata a distruggere Lula. Quando la stampa vuole isolare Lula dice che il Mst è contro Lula perché lui non fa la riforma agraria. Non è vero: esistono tanti progetti che interessano i senza-terra che però non vengono divulgati. Le occupazioni di terra devono continuare anche se ci sono dei progressi nella distribuzione di terra, perché la società civile deve continuare a fare pressione perché il governo risponda».

Vede il pericolo del populismo sia da parte della politica che della Chiesa, in Brasile?

«I movimenti populisti esistono già in Brasile. Nelle chiese, il movimento cattolico carismatico è un esempio. Si riempiono gli stadi con 50mila fedeli, al suono di musica religiosa, ma bisogna chiedersi che cosa cambia nelle persone dopo l’incontro, che cosa cambia nella società. Una terapia collettiva è una cosa fantastica, ma la fede è un’altra cosa. Politicamente, io direi che Lula non è populista. Il populismo nella storia dell’America latina ha sempre avuto un capo che trascina le folle. Lula è il contrario. Lula è stato messo dalla società alla presidenza del paese. Non è stato lui a trascinare la gente. La sua presenza al governo non è frutto del suo carisma, ma è stato il popolo che in modo democratico ha messo una persona, senza dubbio carismatica, a guidare il paese. L’insediamento di Lula nel gennaio scorso è stata una cosa fantastica. C’era allegria ovunque, ma non era come quella che si vede nei filmati di Evita Perón, quelle vampate di gioia fittizie. Quel giorno si vedeva che l’allegria era il risultato di un lavoro di vent’anni, la gente quel giorno festeggiava ovunque in Brasile. Non per osannare Lula, ma per dire a se stessa che era riuscita in un'impresa storica, frutto della sua presa di coscienza».