SABORES / 3

Peccati di gola da Fatima a Santa Teresa

 

di Antonio Forni

                     

    Il quartiere di Fatima non è certo uno dei luoghi più celebri della città di Rio de Janeiro e non offre particolari attrattive che ne giustifichino la visita; tuttavia, è a me molto caro, perché, ad esso, è legato un incontro. Qui viveva, infatti, Eliana, un’amica che conobbi per caso, in un giorno qualunque, persona di grande gentilezza e di totale disponibilità. Qualità di molti brasiliani, a volte scambiate per superficialità o, peggio, per interesse, da chi i brasiliani non ha avuto la fortuna di conoscerli bene. Oltre a bellissimi ricordi, a lei devo la visita ad angoli della città che, altrimenti, non avrei scoperto. Un giorno, dall’Avenida Niemeyer, che collega Leblon a São Conrado, scendemmo verso una minuscola spiaggia inaspettatamente deserta, alle cui spalle osservai uno dei tanti scenari contrastanti di Rio: un imponente albergo a cinque stelle si stagliava sullo sfondo del fatiscente agglomerato di baracche della favela Vidigal. Lusso e miseria a pochi metri l’uno dall’altra, ma separati da distanze sociali siderali. Seduti sulle rocce, passammo ore chiacchierando, soli con la città incombente su di noi. In un fazzoletto di sabbia e scogli, sembrava fossimo protetti da un invisibile scudo che ci isolava dalla giungla urbana, di cui percepivamo, lontano, il frastuono.

Fatima, dicevo; costituito da trafficate vie su cui si affacciano negozi popolari e vecchi condomini, questo quartiere grigio e rumoroso ha il pregio di trovarsi in posizione centrale e a poca distanza dai ben più famosi Lapa e Santa Teresa. Fu qui, sulla collina di Santa Teresa, che Eliana mi condusse, in un tipico pomeriggio carioca di sole rovente. Iniziò come una passeggiata, ma ben presto divenne una specie di ascesa al Golgota, sia per il caldo che per l’ asperità della salita. Le curve sembravano interminabili, quindi decidemmo di proseguire con il bonde (lo storico tram che passa per gli arcos da Lapa, il vecchio acquedotto), ma non riuscimmo a salirci, pieno com’era. Optammo, quindi, per una combi, uno dei tanti pulmini privati adibiti al trasporto pubblico, in modo più o meno ufficiale.

Questa “gita” era nata come una sfida; la sera prima, volendo strafare, l’ avevo invitata in un ristorante molto formale e dal menu elaborato. Le pareti e l’ arredamento, interamente in mogano, mi fecero pensare di essere in un club inglese o, peggio, in un’enorme bara! Da buon prealpino, un po’ impacciato ma avvezzo ai pasti a base di cacciagione, trovai notevole il piatto che mi venne servito: una variazione dell’anatra all’ arancia, con salsa a parte. A lei, l’ assaggio del pennuto risultò indigesto, inibita, anche, dal pensiero del sacrificio del tenero animale.

Nemmeno la sua scelta, un filetto di bue al pepe verde in crema di roquefort, le piacque. Trovò l’ accostamento, tra la carne ed il muffoso formaggio francese, “nojento” (schifoso). Fui costretto, con finto dispiacere, a terminare entrambe le portate e, con vere lacrime, a rivoltare le tasche per pagare il salatissimo conto! La cosa migliore della serata fu il suo vestito, un corto abito con fini spalline, un concentrato di eleganza in pochi centimetri di stoffa.

All’ uscita, Eliana mi disse “domani ti porto in un posto che so io”…

Arrivammo, quindi, il giorno dopo, sulla sommità della collina di Santa Teresa ed entrammo in quello che si poteva definire un dignitoso boteco, un posto dove si può bere e mangiare in modo del tutto informale. Il proprietario ci venne incontro sorridendo…

Quante volte, in Brasile, mi sono sorpreso della bontà e della cortesia del servizio, in bar, negozi e ristoranti! Probabilmente, ciò è stimolato dal fatto che il cliente brasiliano è esigente ed ha una cognizione precisa del concetto di qualità; sa ciò che vuole e lo pretende, sempre. Una volta, in compagnia di un amico, in un locale mai frequentato prima, chiedemmo due caipirinhas con poco zucchero e scambiammo due parole con la cameriera che ci servì i drink.  Ritornai un anno dopo, nello stesso locale, solo; la cameriera mi riconobbe, volle sapere come stesse il mio amico e mi chiese: “la caipirinha la vuole sempre con poco zucchero?” (!) Si tratta di un episodio eccezionale, ma dimostra quanto il servizio sia attento, in Brasile.

Il simpatico proprietario del boteco di Santa Teresa era un carioca verace e, scambiandomi per paulista, mi portò immediatamente una birra gelata “… se no voi di São Paulo dite che a Rio siamo svogliati e che da noi la birra è calda!”. Per correttezza d’informazione, gli dissi che ero italiano, ma che accettavo volentieri la birra “alla paulista”! Rise.

Trovai il locale molto bello, una specie di taverna con grezzi muri bianchi, rustiche panche in legno ed un cortile interno con un piccolo giardino.

Eliana chiese una malzbier, un tipo di birra scura, dal gusto dolciastro, derivante dal caramello usato nella sua fabbricazione e cominciammo ad ordinare piccole porçoês (porzioni), di quello che offriva il locale, cibi classici e saporiti, presenti sulla tavola di qualunque famiglia brasiliana. La “sfida” cominciò con i salgadinhos, serviti come aperitivo per stimolare l’ appetito (necessità, invero, che non ho mai avvertito). Arrivò un pastel de carne (da noi, la cosa che più gli si avvicina è il gnocco fritto emiliano, che, però, è vuoto, mentre il pastel è ripieno, di carne o altro), un kibe (polpetta oblunga di carne con menta, di origine araba) e una coxinha. Si, pronunciato coscigna... alcuni mi prendono in giro perché parlo di cibo come se parlassi di sesso! Va bene, ma affondando i denti in questo soffice impasto di pollo, uova, passata di pomodoro e prezzemolo, infarinato e fritto, cui viene data la sensuale forma di una “pera” e chiamato con il diminutivo di “coscia”, come non sognare omonime località della geografia femminile?

Proseguimmo con un “aperitivo” di picanha acebolada. Questa carne brasiliana, la picanha, è famosa in Italia, ancor più della feijoada e viene sempre servita nelle churrascarias del nostro Paese, arrotolata e infilzata sullo spiedo (di solito se ne mettono tre, una sull’altra), cotta e tagliata direttamente nel piatto, così come le altre del rodizio, il giro delle carni. Una volta, sentii il signore del tavolo a fianco esclamare: «buona, ‘sta bistecca a forma di girella!». In realtà, è un taglio piatto e nobile del manzo, con un filo di grasso, e corrisponde alla parte in fondo alla schiena della bestia (fondoschiena? Dai, basta con questi pensieri!). L’ “aperitivo” in versione acebolada, è tagliato in piccoli pezzi, saltati in padella con la cipolla, e si presenta nel proprio delizioso sughetto, dove si può fare una bella “scarpetta” all’italiana, col pane, come mostrai ad Eliana.

Era il turno di una mandioca frita (o aipim, o macaxeira cioè la manioca fritta, croccante, buonissima), seguita da farofa com ovos (farina di manioca fritta con bacon, uova, aglio e cipolla), da arroz e feijao (riso e fagioli) e un assaggio di rabada, parente brasiliana della “coda alla vaccinara” capitolina.

Ci fu un ulteriore paio di portate, ma non rammento quali, anche perché le birre gelate alla paulista e le malzbier si susseguirono senza soluzione di continuità, rendendo offuscati i contorni del ricordo (al ritorno, scendemmo rimbalzando sui muri, come palline sulle sponde di un flipper). Eliana, ovviamente, aveva vinto la “sfida”, grazie al cibo e all’ambiente che aveva scelto, così piacevole e rilassante, al contrario della “bara” del giorno prima.

A scadenze regolari, cerco di convincermi che il mio fisico un po’ appesantito avrebbe bisogno di un periodo di sana quaresima. Poi, rifletto sul fatto che le persone che più mi piacciono, in realtà, sono quelle che condividono con me gli stessi sani appetiti e che, facendo generosamente onore alla buona tavola, dimostrano, anche, la loro generosità di cuore.

Come Eliana, buongustaia, ma dalla silhouette invidiabile (beata lei!) ed una luce negli occhi che ne riflette la bellezza interiore. Non ci vediamo da un po’ di tempo, da prima che si trasferisse fuori città e che iniziasse a collaborare con la campagna presidenziale di Lula. L’ ho sentita a Natale, felice per l’ esito delle elezioni; a Pasqua, triste per le difficoltà economiche, ed ancora, qualche tempo fa, entusiasta per un progetto che sta contribuendo a realizzare: un ricovero per anziani, inserito nello stesso comprensorio di un asilo per bambini “de rua”; le fasi estreme della vita umana che, interagendo, si aiutano. Oltre a ciò, mi raccontava del suo lavoro, delle lunghe ore in autobus e di una vita senza certezze, come quella del suo amato Paese.

A Rio, l’ ultima volta, andando da un capo all’ altro della città, mi ritrovai, per caso, a Fatima; quante volte, la saudade di un momento che non potrò rivivere mi ha fatto vedere più bello il luogo dove si svolse. Quel quartiere un po’ anonimo, quel giorno, mi parve stupendo…