IL RACCONTO

L'orologio di plastica

 

di Julio Monteiro Martins

L'orologio di plastica è un segmento, il numero XVII, tratto dal romanzo "Barbara", pubblicato dalla casa editrice Codecri di Rio de Janeiro nel 1979 e inedito in Italia. Ho scelto di chiamare proprio "segmenti" i capitoli di questo libro, perché al contrario dei capitoli tradizionali che dipendono dalla comprensione dell'insieme affinché la trama abbia un suo senso, questi godono di una propria relativa autonomia e possono essere letti anche separatamente, come racconti brevi. Disposti nell'ordine proposto formano il romanzo, che narra la vita immaginaria del personaggio che dà il titolo al libro. Per meglio inserire questo testo nella trama generale del romanzo, potrei aggiungere che nel segmento che precede "L'orologio di plastica", quando le mandrie cercano riparo, scritto interamente nella forma di un dialogo telefonico, Barbara, già anziana e sola, riceve un invito da una voce maschile anonima che garantisce di conoscerla bene da molti anni, e le dice di volersi lasciare tutto alle spalle per scappare insieme a lei, verso un futuro tutto da inventare insieme. Sicura che sia solo uno scherzo di cattivo gusto, opera di un sadico o di un pazzo, dopo una certa esitazione Barbara si congeda definitivamente dal suo spasimante telefonico. 



(em portugues)


   
Il futuro che senz'altro avremo è stato bello, sereno, eccitante. Tu mi stringesti la vita con le mani forti e sollevasti il mio corpo sulla testa. Sorridevamo, e giravi su te stesso, mentre le pareti passavano in una vertigine nelle mie pupille dilatate, passeggere di un treno interminabilmente in curva.
Allora corriamo per viali senza angoli, lasciandoci dietro, nella scia, esseri immobili, tutte le automobili in panne, le luci in ritardo sul passo, porte mezze aperte. 

Ci lasciamo dietro la Storia che da mesi non accadeva, e non accadde, in questo nostro giorno che verrà, lo so. Forse è stato domani, forse l'anno prossimo. Apriamo tutti i cassetti degli alberghi in cerca di piccoli oggetti dimenticati. Guardavamo i muri, i vetri delle finestre, i cuscini. Non mi pare che abbiamo visto, tra il bianco e il nero, alcun oggetto arancione. Tuttavia, contammo ventun colori, e dormimmo abbracciati sulla moquette pensando al colore dei corpi. E sognammo toni inesistenti. Entriamo nei pollai, nei cabaret, nei macelli, nelle gallerie.

Visitiamo frettolosamente banche e musei. Di questo sono sicura, sarà ieri.
Giriamo per i negozi. Cercai il tuo volto tra le bambole, gli orsi di peluche. Di mettere insieme i pezzi del puzzle che molto tempo fa riuscirai a finire. Giocammo insieme con un orologio di plastica, di quelli su cui bambini imparano a leggere le ore, le cui lancette girano in balia delle nostre dita, in ogni direzione. La memoria ha la chiarezza delle costellazioni. E' successo dopo che siamo partiti. Tu noleggerai una macchina che non restituiremo mai più. Percorreremo una strada polverosa e sinuosa che ci porterà sulle rive di un lago dalle acque vergini.

Mi toglierò le scarpe e timidamente arrotolerò i pantaloni fino alle ginocchia, e getterò sassolini sui tuoi capelli fradici che nasconderanno ancora una volta il tuo viso. E ancora una volta, in questi tempi nebbiosi e perduti, entro nell'acqua sabbiosa e sotto il sole bacio la tua bocca. Tu mi dicesti che mi amavi e che sarà meraviglioso che io fossi venuta con te. Gli alberi osserveranno i miei rapidi movimenti. Schizzo acqua sul tuo volto e tu scappi, proteggi gli occhi con le braccia incrociate, ti giri mentre io cerco nuotando di venirti ad abbracciare, e ti morderò sul collo e sulle spalle, lasciando il segno dei miei incisivi innamorati.

Non si era ancora fatto giorno quando partimmo. Butto qualche vestito in un borsone avuto in prestito. Scendo le scale senza fine, perché avremo deciso di non usare l'ascensore quell'ultima volta. Consegno le chiavi dell'appartamento al portiere, e allora gli ho detto di usarle come meglio credesse. Entreremo in un bar che adesso è aperto, in un posto qualsiasi. Abbiamo mangiato qualcosa e tu mi domanderai se ho preso proprio tutto. Ma sì…dirò, e ti ho afferrato per la camicia gridando: Via! Andiamocene via, fino all'inferno se vuoi! So che sarò felice anche lì.

Pochi anni fa mi hai dato un figlio sulle rive di quel lago. Fino a ieri ero incinta. Lo sto partorendo ora questo bambino, che fra molto tempo starà ancora nascendo. Tu mi abbraccerai tra il fogliame e aprendomi come cesoie le gambe con i piedi scalzi e bagnati, mi lasciasti a dondolare nelle scosse degli orgasmi, e a vedere gli aironi spaventati trasformare il cielo in un mosaico indefinito. Noi sapevamo quando sarà che questo momento sarebbe arrivato. Stiamo trascorrendo una domenica a casa, sotto le coperte di un pomeriggio freddo, con la TV accesa su un programma che da due anni non trasmettono più. 

Guarda, non avevo colpa se le cose cambieranno. Non avrò colpa se sono già cambiate. Poi riattaccherai il telefono e in un secondo, o anche meno, stavi fermo nel corridoio di fronte alla mia porta, aspettando con ansia che io finisca di preparare la borsa e vada via. Ti fregherai le mani sudate, camminerai da una parte all'altra, e preparerai nella mente ogni dettaglio della fuga. Io sono arrivata, pronta e ansimante, tu hai sorriso e hai urlato: Andiamo, subito! Verso qualunque posto dove saremmo liberi. Vorrei aver visto che faccia ha fatto il vecchio Valdemar, il portiere, quando si troverà in mano un mazzo di chiavi e resterà a guardarmi, senza sapere cosa dire, con quella maschera senza vita che Dio gli ha dato. Mi ha chiesto: E gli esattori? La bolletta della luce? Del telefono? Dirò che vadano a quel paese, che li paghi Gesù. Dirò di più. Che mi sono trasferita in un posto che non esiste. Sono a Maracangalha, Valdemar! Dove si trova? Via, non essere pigro, cercalo sulla cartina.

Lascerei tutto alle spalle, i mobili, i libri letti e quelli non letti, ho lasciato tutto in quell'appartamento. In un giorno qualsiasi del mio passato farò un grande falò, guarderò i dischi deformarsi e poi sciogliersi, i vestiti bruciare, le bottiglie scoppiare. Farei tutta questa festa di fuoco proprio qui, al centro della sala di questo appartamento. Taglio i fili e butto il telefono tra le braci, perché si aprano spazi nella plastica nera e verrebbero fuori le viscere metalliche di quel maledetto apparecchio sordomuto, e i suoi numeri... al diavolo i numeri!

Molto tempo fa alzai tremante la cornetta del telefono e ascolto e rispondo ad una voce ansiosa, che chiederà, mi convocherà tutta intera e per l'ultima volta:
- Ti verrò a prendere, Barbara. Vieni con me! Ma che sia subito!
- No, non vengo. Non posso e non voglio. Per favore, non richiamare mai più.


(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi studenti dell'Università di Pisa: Andrea Pardi, Cristiano Rocchetta, Eugenia Ceccarelli, Jessica Maghelli, Katia Quaglierini, Monica Lupetti, Paola Marianelli e Patrizia Scorziello.)

Julio Monteiro Martins è nato a Niterói, in Brasile, nel 1955. "Fellow in Writing" presso l'Università del Iowa, negli Stati Uniti, ha insegnato Scrittura Creativa al Goddard College, nel Vermont, USA (1979-82), nella Oficina Literária Afrânio Coutinho, a Rio (1982-91), nell'Instituto Camões, di Lisbona (1994), nella Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995), e ha tenuto nel periodo 1995-99 corsi a Lucca, a Pistoia, a Forte dei Marmi e a Viareggio, in Italia. Ha pubblicato nove libri in Brasile, tra romanzi, racconti e saggi, con diverse traduzioni all'estero. In Italia ha pubblicato il libro "Il percorso dell'idea", nel 1998 e "Racconti italiani", (Besa Editrice, 2000). Autore teatrale e docente di Lingua Potoghese e di Traduzione Letteraria all'Università Degli Studi di Pisa. Ideatore dell'evento "Scrivere Oltre le Mura" e della Scuola Sagarana, e direttore della Rivista Sagarana on-line (www.sagarana.net).

 

 

 

 

 

 

 

(em portugues)

 

Relógio de plástico

 

por Julio Monteiro Martins




O futuro que nós haveremos de ter foi bom, foi calmo, foi imaginativo. Você apertou a minha cintura entre seus dedos firmes e ergueu meu corpo sobre sua cabeça. Sorriamos, e você girava em seu próprio eixo, enquanto as paredes passavam em vertigem sobre minhas pupilas abertas, passageiras de um trem que faz uma curva interminável.

Então corremos pelas avenidas sem ângulos, deixando para trás, em nosso rastro, os seres em imobilidade, os automóveis todos enguiçados, as luzes atrasadas no nosso encalço, as portas meio abertas. Deixamos para trás a História que há meses não acontecia, e não aconteceu, neste dia nosso que virá, eu sei.

Talvez tenha sido amanhã, talvez no próximo ano. Abrimos todas as gavetas dos hotéis, em busca de pequenos objetos esquecidos. Olhávamos as paredes, os vidros das janelas, as almofadas. Não me recordo de termos visto, entre o branco e o preto, nenhum objeto alaranjado. No entanto, contamos vinte e uma cores, e dormimos abraçados no soalho acarpetado, pensando nas cores dos corpos. E sonhamos com tons inexistentes.

Entramos nas granjas, nos cabarés, nos açougues, nas galerias. Visitamos apressados os bancos e os museus. Tenho certeza disto, será ontem. Corremos as lojas de brinquedos, procurei seu rosto nas bonecas, nos ursos de pelúcia. Tentei arrumar as peças de um quebra-cabeças que faz muito tempo você conseguirá armar. Brincamos juntos com um relógio de plástico, destes usados para ensinar as crianças a conhecer as horas, e cujos ponteiros giram ao sabor dos nossos dedos, em todas as direções.

A memória tem a clareza das constelações. Aconteceu logo depois que partimos. Você alugará um carro, que não mais devolveremos. Com ele percorreremos uma estrada poeirenta e sinuosa, que nos levará às margens de um lago de águas virgens. Tirarei os meus sapatos e, com timidez, arregaçarei as calças até os joelhos, enquanto mais que veloz você se atirará de corpo nu e violará o lago, que o aceitará passivamente, em ondas circulares e concêntricas. Foi neste momento que ficarei rindo da margem, e atirarei pedrinhas em seu cabelo escorrido, que esconderá a sua face uma vez mais.

E uma vez mais, neste tempo nublado e perdido, eu entro na água arenosa e beijo a sua boca sob o sol. Você me disse que me amava, e que será maravilhoso eu ter vindo com você. As árvores estarão observando meus movimentos rápidos. Atiro água em sua face e você foge, protege os olhos com os braços cruzados, vira-se de costas para mim, enquanto eu procuro nadar para abraçá-lo e morderei a sua nuca e as suas costas, deixando a marca rubra de meus incisivos apaixonados.

Ainda não tinha amanhecido quando nós partimos. Jogo algumas peças de roupa numa sacola emprestada. Desço as escadas infindáveis do prédio, pois teremos resolvido não usar do elevador naquela última vez. Entrego a chave do apartamento ao porteiro e disse então que a usasse como bem entendesse. Entraremos em algum bar, que neste momento está aberto em qualquer esquina. Fizemos um breve lanche e você me perguntará se não esqueci de trazer nada importante. Direi que não, e puxei você pela camisa, gritando: Vamos! Vamos para o inferno, se você quiser! Sei que até lá serei feliz.

Há poucos anos você me fez um filho às margens daquele lago. Até ontem eu estava grávida. Estou parindo esta criança agora, que nascerá ainda daqui a muito tempo. Você me abraçará entre as folhagens e, abrindo minhas pernas com seus pés descalços e molhados, como tesouras de grama, deixou-me a balançar nos choques dos orgasmos sucessivos, e a ver as garças assustadas transformarem o céu em um mosaico indefinido.

Nós sabíamos quando será que esta hora chegaria. Estamos passando um domingo em casa, sob as cobertas de uma tarde fria, com a televisão ligada num programa que há dois invernos saiu do ar. Veja, não tinha culpa se as coisas mudarão. Não terei culpa se elas já mudaram. Então, você desligará o telefone e em um segundo, ou menos até, estava parado no corredor, em frente à minha porta, esperando ansioso que eu termine de arrumar a sacola e parta. Você esfregará as mãos suadas, andará de um lado para o outro, preparará em sua mente cada detalhe do plano para a fuga. Eu cheguei pronta e ofegante. Você sorriu e berrou: Vamos, já! Para qualquer lugar onde seríamos livres.

Queria ter visto a cara do Seu Valdemar, o porteiro, quando receberá em suas mãos um molho de chaves e ficará me olhando sem saber o que dizer, com aquela máscara sem vida que Deus lhe deu. E ele me perguntou: E os cobradores? E a conta da luz? Do telefone? Ah! Direi que se lixem todos, que cobrem da providência divina. E direi mais. Direi que fui para um lugar que não existe. Fui para Maracangalha, Seu Valdemar! E onde fica isso? Ora, não seja preguiçoso, procure no mapa.

Largaria tudo para trás, os móveis, os livros lidos e os não lidos, deixei tudo naquele apartamento. E num dia qualquer do meu passado farei uma imensa fogueira, assistirei aos discos se empenando e derretendo, as roupas incendiando, as garrafas estourando. Faria toda esta festa de fogo aqui mesmo, no centro da sala deste apartamento. Corto os fios e jogo o telefone entre as brasas, para que se abram espaços no plástico negro e surgiriam as entranhas metálicas daquele maldito aparelho surdo e mudo, e seus números… Para o diabo os números! Faz muito tempo que segurei trêmula o gancho do aparelho e ouço e respondo a uma voz aflita, que perguntará, que me convocará inteira e pela última vez:
- Eu vou buscá-la, Bárbara. Venha comigo! Tem que ser agora!
- Não, eu não vou. Eu não posso e não quero. Por favor, nunca mais me telefone novamente.