Le radici nella pampa

 

di Caio Fernando Abreu

 

traduzione di Bruno Persico

 

Circa venti giorni fa mi trovai di fronte ad una decisione difficile. Tre le opzioni: andarmene a Montevideo per l’apertura di una nuova libreria; a Santiago per inaugurare una esposizione di fotografie nella sezione degli scrittori santiaghensi alla Casa della Cultura, o - ay! - farmi ricoverare immediatamente per asportare una vescica totalmente infetta. Mi dissi: beh, innanzitutto devo pensare a salvarmi la pelle, e quella malefica vescica era la causa di tutti i mali degli ultimi mesi. Ma pensai anche: ah Montevideo, in Uruguay, dove non sono mai stato e di cui tanto amo la letteratura (Onetti, Quiroga, Felisberto Hernandez), conoscere personalmente Alfredo Fressia, corrispondente a São Paulo di El País, che ha presentato un ottimo lavoro su di me nel supplemento letterario (esce il venerdì, forse il migliore in tutta l’America Latina e facilissimo da trovare a Porto Alegre). E Santiago, però, il mio Passo di Guanxuma? Sono 12 anni che non ci vado, dal centenario della città, e prima di questi 12 ne erano trascorsi altri 12 senza una mia visita (un’illuminazione improvvisa, che mi sconvolge: 12, il ciclo di rivoluzione completa di Giove). Vado a Santiago, dissi improvvisamente al medico. Ma veramente...., lui cercò di dirmi. E’ una questione spirituale, spiegai, ci vado e basta. Dopo di che mio fratello Felipe, grande e solidale compagno, si offrì di accompagnarmi in auto e ogni cosa, come per magia, cospirò perché io ci andassi proprio.

E ci andai, ci andammo, scendendo gaudenti per il Rio Grande do Sul.  Mio Dio, la Pampa, quant’è bella! Dal finestrino a poco a poco si susseguirono i paesaggi a punta di penna e acquerello, cespugli solitari tra colline soavissime, le evoluzioni aeree di garze bianche, casolari sperduti, brughiere desertiche a perdita d’occhio, rigagnoli d’acqua trasparente che riflettevano fili di nubi in un cielo totalmente azzurro, gradazioni di luci e colori nelle sfumature di verde, nei toni chiari e scuri. Come in un quadro, e quasi senz’anima viva a parte un mulattiere qua e là e alcune donne solitarie sul ciglio della strada. Orientale, la Pampa ha un’anima orientale, scoprii. Buddista, essenziale. E i nostri sospiri, miei e di mio fratello, lungo le curve della strada che ci portava sempre  più   vicino  alla meta,   nei paradisi ecologici, fortunatamente sconosciuti, di Jaguari e Ernesto Alves. Giunsero così il vecchio aeroporto, i campi dove rubammo un girasole, Augusto ed io, che vive in Norvegia da più di vent’anni e, quando torna in Brasile, viene dritto dritto qui, nella Pampa. Nei tre giorni seguenti, la mia zia prediletta, Elcy Abreu Flores, e i suoi pranzetti prelibati, mio cugino Airton dedito al suo stereo e alle amiche bellissime, la vite colma di grappoli che zio Leopoldino potò interamente, un anno fa, in un ultimo sforzo prima di morire. La bellissima zia Yvette Moura, con quei suoi occhi verdi e quell’aria da contessa proustiana, la sua vita audace di donna che ha sfidato non pochi pregiudizi. Ilone Dri Almeida, un’amica da ormai quarant’anni. Tante persone, tante cose buone, vitali, genuine, tanta gente che rivive nella mia memoria. La palma e l’ibisco rosso che chiesi al vicino, la rosa rampicante che zia Elcy mi diede, la luna piena enorme, dorata, che entrò dalla finestra aperta della camera dove dormii per rinfrescare questo mio povero corpo scalfito. Poi il ritorno lento verso la Pampa buddista, e il desiderio mio e di mio fratello di andare a vivere là. Due giorni dopo mi trovavo in ospedale. Tre interventi, pressione a 3, otto trasfusioni di sangue (grazie, RBS, per la forza!), CTI infernali, dolori, medici sensibilissimi, cateteri, mari di morfina. Il volto della morte dipinto sul mio.

 Ce l’ho fatta, sono vivo. Sei forte, mi hanno detto. Da dove viene tanta energia? Dalla Pampa, risposi io, dal Passo di Guanxuma, che se non fosse stato per quelle giornate, forse, non avrei resistito. Perché? Il perché non l’ho detto, ma ora penso che è dalle proprie radici che la persona viva trae la sua energia. E le mie radici sono laggiù, ben piantate nel profondo degli acquerelli giapponesi delle distese senza fine di Érico Veríssimo, Aureliano de Figueiredo Pinto, Cyro Martins, Sergio Faraco. Non si tratta di campanilismo, ma di vita. Religione: re-ligare. Grazie a Dio e a tutti gli angeli reali e immaginari che mi furono intorno in questo dicembre, sono vivo, e ciò è cosa buona.

 

da: Zero Hora, Porto Alegre, 30.12.1995 

O O O

Caio Fernando Abreu (1948-1996) nasce a Santiago, nel Rio Grande do Sul, al confine con l’Argentina. Scrive i primi testi già all’età di 6 anni, ed a 18 il primo romanzo, Limite Branco. Scrivere è per lui “una cosa naturale, quasi un difetto di fabbricazione – l’impossibilità di vivere la vita senza inventare storie al margine”. Dopo aver abbandonato gli studi di lettere e arti drammatiche, nel 1968 si trasferisce a São Paulo ed inizia a lavorare come reporter della Veja. L’attività del giornalista si affiancherà sempre a quella dello scrittore, e gli permetterà di guadagnarsi da vivere. Dal 1971 passa a Rio de Janeiro ed è redattore di Manchete, Pais e Filhos e Zero Hora. I suoi libri ricevono intanto premi e menzioni speciali nei concorsi letterari. Nel 1973 vive tra Stoccolma e Londra, e l’anno seguente torna in Brasile dove collabora nella stampa alternativa che si sottrae alla censura del regime. Nel 1975 il suo libro O Ovo Apunhalado subisce i tagli della censura per “attentato al buon costume”. Nel 1982 pubblica Morangos Mofados, il libro che lo rese noto al grande pubblico, anche grazie all’omonima pièce teatrale. Negli anni seguenti vive tra Rio e São Paulo, collabora a quotidiani e riviste quali IstoÉ, O Estrado de São Paulo, A-Z, e scrive per il cinema e il teatro. Nel 1983 pubblica Triângulo das Águas, la sua opera più controversa, alla quale verrà attribuito il prestigioso premio Jabuti nel 1985. E’ del 1988 la raccolta di racconti Os Dragões não conhecem o Paraíso, che ne afferma l’indiscusso talento letterario. Due anni più tardi uscirà il secondo ed ultimo romanzo, Dov’è finita Dulce Veiga?, un viaggio allucinato nella São Paulo underground alla ricerca di una misteriosa cantante scomparsa.

La vita di Abreu conosce una svolta nel 1994, quando inizia a manifestare i primi sintomi dell’Aids. Sceglie di non fare mistero della sua condizione, scrivendo articoli e rilasciando interviste sul tema. La malattia, il progressivo indebolimento e la percezione di essere prossimo alla fine determinano in lui un’ansia frenetica di scrittura, di riorganizzazione della propria opera e di riconciliazione con il passato: ritorna nella terra di origine, a Porto Alegre (che nelle lettere agli amici chiamerà con ironia Gay Port), rimette mano ad alcuni suoi libri, pubblica racconti inediti, partecipa ad incontri e a mostre letterarie, conservando fino all’ultimo l’ironia e la dignità che lo avevano contraddistinto. Muore il 25 febbraio del 1996.

Abreu è lo scrittore che più di ogni altro suo conterraneo ha saputo interpretare e tradurre in arte le contraddizioni e le inquietudini di un paese moderno come il Brasile. Non una terra di frutti esotici e samba scatenati, ma una realtà complessa e post-moderna, urbana e irredenta, i cui protagonisti, come i loro simili in Europa o nelle metropoli americane, vivono sulla propria pelle le fatiche della modernità. Le sue sono storie di incontri e disincontri, di solitudini, di illusioni infrante, di momenti epifanici, di emozioni colte nel nascere con uno stupore quasi devozionale, nelle quali l’uso di una prosa attenta alle armonie e alla musicalità si sposa con una dimensione ipertestuale che spazia dal cinema alla filosofia, dall’astrologia agli echi e ai ritmi musicali, dallo spiritualismo di origine africana ad una gaytudine più allusiva che esplicita. Sono storie che racchiudono la testimonianza di un’intera generazione che dapprima ha conosciuto la rivoluzione sessuale e la repressione degli anni 60, e in seguito si è liberata dalle costrizioni sociali e morali per dare pieno sfogo alla propria immaginazione e individualità.

Della vasta produzione di Abreu sono stati pubblicati in Italia il romanzo “Dov’è finita Dulce Veiga?” (1993) e la raccolta di racconti “Molto lontano da Marienbad” (1995), entrambi dalle Edizioni Zanzibar.

Due racconti inediti di Abreu sono pubblicati sui seguenti siti internet:

sagarana.net

terence-spray

   

Bruno Persico (Crema, classe 1961) ha fatto dello studio delle lingue e delle culture straniere il suo principale passatempo. Laureato in Inglese e Tedesco, approda sulle sponde atlantiche di Portogallo e Brasile grazie alla straordinaria tradizione musicale di questi due popoli, di cui si innamora perdutamente. Legge alcuni racconti di Abreu sull’aereo che lo riporta a casa dal primo viaggio in Brasile e ne rimane folgorato. La sua innata caparbietà, ma forse anche lo zampino di qualche Orixá, cospirano affinché gli venga affidata la traduzione della raccolta di racconti di Abreu “Molto lontano da Marienbad”. Resosi in seguito conto del carattere straordinario e universale di certi scrittori brasiliani, ha giurato di non darsi pace finché non li vedrà pubblicati anche in Italia. Nel frattempo, però, traduce anche altre cose e tiene corsi di Traduzione dal Tedesco all’Università di Bologna, città in cui ha scelto di vivere.