N.N. - DISPERSI E RITROVATI DELLA MUSICA BRASILIANA 

Nostalgia di Monsueto, gigante nero 

 

 

di Nené Ribeiro

 

 

 

    La sua immagine allegra e robusta accompagnò la mia infanzia. Lo vedevo sempre in TV. La corporatura da marcantonio nero dominava lo schermo: il sorriso beffardo, la malizia nei gesti e l’innocenza negli occhi. Tutto era spontaneo e terso. Persino le espressioni onomatopeiche che si inventava. Soltanto dopo un po' di tempo compresi che era lui l’autore di quel samba mille volte cantato da me in solitudine, quel ritornello che guidava le mie questioni metafisiche di bambino: “mora na filosofia, prá que rimar, amor e dor?”.  Era lo stesso brano che, dalla radio, avevo appreso e che allora vedevo interpretato da lui, Monsueto, in una trasmissione, coadiuvato da bellissime ragazze. Era sempre lui a insegnarmi che felicità e sofferenza non dovrebbero far rima nella nostra vita, ma che convivono bene in un samba, per farci reggere l’esistenza con più serenità.

In questi tempi - e sono tempi duri, questi - mi manca la forte presenza di Monsueto. Da molto non ascolto la sua voce che interpreta un samba, uno di quei samba di melodia ispirata, con intervalli melodici africani e parole che puntano diritto al cuore: “hai capito la filosofia? perché far rima tra amore e dolore?”.

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    Monsueto, classe 1924, nacque nella favela del Morro do Pinto, nel quartiere della Gavea, zona sud di Rio. La vita subito lo ammaestrò con dure poesie. Orfano dei due genitori all’età di tre anni, crebbe con un piede nella cucina di una casa della borghesia carioca dove la zia lavorava da domestica e l’altro nelle colline piene di giochi e povertà del Morro do Pinto. A dodici anni completò la quinta elementare e si mise ad aiutare il fratello più vecchio che apriva una piccola tintoria. Durò poco la tintoria. Monsueto proseguì ad arrangiarsi con piccoli lavori e a cercare la vivacità dei partido alto e delle batucadas nelle favelas. A quindici anni iniziò a partecipare alle scuole di samba. In poco tempo suonava con disinvoltura i numerosi strumenti di percussione afrobrasiliana. Presto ebbe accesso al convivio dei migliori maestri: la statura imponente, la simpatia accattivante, la parola facile e alacre, gli permisero di sfilare in diverse scuole, senza suscitare rivalsa o imbarazzo. Lui era o baita negão – il gigantesco negrone - amato e coccolato da tutti, e specialmente da tutte. Perché la vita ammaestrò Monsueto, anche, con le dolci poesie.

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     Si sposò presto, Monsueto.  A venti anni. Trovò casa nel suburbio Vieira Fazenda, dove, con la moglie, Maria Aparecida, inaugurò una tintoria. Ma il suo sogno fu sempre la musica. Si tuffò nei locali notturni carioca, proponendosi come batterista e cercando di fare tesoro della sue abilità con le percussioni. Non dominava con perfezione lo strumento, ma in poco tempo riuscì ad assicurarsi uno spazio che occupava tutte le sue serate. Di conseguenza la gestione della tintoria passò a Maria Aparecida. Una notte, dopo una serata in un night club, arrivò alla casa di sua sorella, Ernestina, nel quartiere di Piedade. Svegliò la nipote e una sua amica. Raccontò che aveva un’idea per un samba. Le portò in una camera in fondo alla casa. Lui cantava e scriveva; loro facevano i cori. Di mattina venne alla luce A fonte secou, che più tardi divenne uno dei suoi maggiori successi. Conteneva uno dei versi più efficaci della canzone brasiliana e molto amato da Maria Bethânia: “teu egoismo me libertou” – tuo egoismo mi ha liberato. Dalla fontana creativa di Monsueto sarebbero ancora fluiti 135 titoli.

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     L’amicizia con José Caribé, produttore di concerti, lo portò, nel 1950, ad integrare la prestigiosa orchestra di Copinha nel Copacabana Palace. La batteria, ogni tanto, non accompagnava correttamente i cantanti, ma l’uomo conquistava ammiratori per l’intelligenza e musicalità dei brani che mostrava ai colleghi. Nel 1951, Linda Batista incise Me deixa em paz, un samba in tono minore, con melodia di singolare incanto e parole intense. La registrazione ottenne uno strepitoso successo nel carnevale dell’anno seguente. Nel 1954, A fonte secou, con Raul Moreno, fu la musica più eseguita e cantata del carnevale. Nel 1955, Marlene, una delle principale interprete di canzone carnevalesche, raccolse un’altra affermazione con Mora na Filosofia. La fama e la voce rauca ma intonata permisero a Monsueto di diventare l’interprete delle proprie composizioni e un contagiante show-man negli spettacoli musicali che animavano la notte carioca. Cercato da brave e belle ballerine e di una sessione di percussioni, conduceva la scena con battute gergali divertenti e indovinate. In questa veste, realizzò una serie di tournee all’estero, registrò un disco e approdò alla TV. Il suo volto giocoso illuminò 14 pellicole cinematografiche.

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    Monsueto trascorse gli ultimi dieci anni di vita con Vera Lúcia, una delle sue ballerine e madre di tre dei suoi sei figli. Per hobby si avvicinò alla pittura e vide i suoi quadri, di squisito sapore naif, essere premiati e abbellire le pareti di ricchi compratori – tra loro, il Nobel cileno, Neruda.

Monsueto ci manca dal 1973. Conservo con me un suo ultimo e nitido quadro-ricordo. Una trasmissione televisiva condotta da Elis Regina. Vinicius de Moraes e Toquinho diffondevano il loro brano, Na tonga da mironga, una presa in giro alla censura. Insieme a loro, il baita negão Monsueto che infieriva con una serie di insulti nonsense, in finto dialetto yorubà, sull’arroganza dei potenti. Una maschera ironica, sarcastica e allo stesso tempo mansueta contro tutte le arroganze e gli abusi.  In questi giorni, la possente figura di Monsueto mi manca molto.