«I miei parenti brasiliani al Premio Tenco»

Chiacchierata con Antonio Silva, non solo presentatore della
più nota kermesse italiana dedicata alla canzone d'autore

 

di Alfredo del Curatolo

  

 «Arto Lindsay? La sorpresa più lieta dell’ultima edizione del Premio Tenco. Gilberto Gil? Un professionista come ce ne sono pochi, ma umile e affabile». Parole (e musica) di Antonio Silva, nella vita di tutti i giorni preside del liceo scientifico Enrico Fermi di Cantù, per passione e amicizia da venticinque anni padrone di casa della più importante kermesse italiana della canzone d’autore dedicata alla memoria di quel poeta, innovatore e uomo tormentato che fu Luigi Tenco. Manifestazione che si tiene, ogni anno dal lontano 1974 a Sanremo, città che si macchiò suo malgrado della morte del grande cantautore e che non ne onora la memoria con il popolare Festival della canzone italiana. Lo fa invece la rassegna che Silva si onora di presentare con una verve tutta sua, trattando gli artisti come fratelli, incensandoli o riducendoli al ruolo di comparse a seconda dell’umore, del clima e della disponibilità degli stessi a stare al gioco. Il segreto del Tenco è anche la sensazione di trovarsi in una grande famiglia. E in questa famiglia il cui papà, scomparso da qualche anno, si chiamava Amilcare Rambaldi, Silva è uno dei fratelli maggiori. E c’è anche qualche parente brasiliano.

«Quando Amilcare inventò il Tenco – racconta Silva – aveva ben presente quali fossero i numi tutelari della poesia in musica nel nostro paese e nel mondo. Se noi potevamo vantare un Fabrizio De Andrè, un Gino Paoli, un Sergio Endrigo, un Piero Ciampi, sapevamo che i maestri venivano da oltralpe (Léo Ferrè, due volte al Tenco e omaggiato anche quest’anno, Jacques Brel, Georges Brassens) e da oltreoceano (Bob Dylan, Leonhard Cohen) e che avevano influenzato non poco i nostri. Ma Amilcare guardava oltre e amava alla follia le liriche di Vinicius De Moraes, i primi album di Caetano Veloso e dei tropicalisti, la schiettezza intellettuale e l’attivismo di Chico Buarque, il genio di Tom Jobim. Con questi numi tutelari della terra del samba e della bossa siamo cresciuti; loro abbiamo voluto sul palco dell’Ariston in più occasioni per ribadire che la canzone d’autore italiana ha le sue radici anche in Sudamerica». Niente di più vero. Basti pensare al Sergio Endrigo folgorato dalla saudade e dalla bossanova, a grandi interpreti femminili come Mina e Ornella Vanoni che hanno trovato così naturale passare da Paoli, Tenco, Donaggio e Bindi a Buarque, Vinicius e Tom Jobim. Basti pensare all’influsso che hanno subito dal Brasile anche autori dei Settanta come Lucio Dalla, Pino Daniele, i fratelli Conte, il Finardi di “Le donne di Atene” e più giovani (Fabio Concato, Vinicio Capossela) e si capisce come mai l’autore di “O que serà” al Tenco fosse di casa e tra i suoi grandi amici ci fosse proprio il compianto Rambaldi. 

«Chico è sempre stato uno dei nostri punti di riferimento – ammette Silva – una prima volta lo invitammo per consegnargli la targa Tenco come miglior artista straniero dell’anno 1981. Era il periodo in cui per una scelta politica condivisibile aveva deciso di non cantare. Non rinunciò però ad essere sul palco sanremese per ricevere il riconoscimento e per sentire le sue canzoni tradotte e interpretate da altri autori, inoltre tenne una “quasi conferenza colta” (per dirla con Guccini) sulla canzone politica brasiliana. Avreste dovuto vedere le facce di noi presunti esegeti e di giornalisti e musici presenti quando Chico spiegò come e perché “La banda” fosse una canzone politica, anzi la metafora dell’annosa situazione politica del suo paese. Promise a tutti che una volta tornata la democrazia nella sua terra si sarebbe esibito al Tenco. L’occasione si presentò in un’occasione poco felice, l’omaggio allo scomparso Amilcare sei anni fa. Il “suo” Amilcare. Da allora Chico Buarque è a tutti gli effetti uno dei nostri, anzi, un "meu caro amigo". Caetano è diverso. Più distaccato, per carattere, più intellettuale nei modi, posato e austero. Ma oltre ad essere un professionista come pochi, mi ha dato l’impressione di grande umiltà come fosse dettata da un pizzico di timidezza la sua aria apparentemente distante. Al termine della sua performance del Tenco 1990 volle ringraziarmi personalmente per la bella presentazione e le parole con cui lo avevo introdotto. Aveva capito che noi del Tenco il manierismo lo lasciamo ai pippobaudi».

Aneddoti a non finire, a scavare nella memoria di ventotto edizioni di premio Tenco, come un vecchio, commovente e bravissimo Antonio Carlos Jobim nel 1990 e il paroliere Sergio Bardotti che con entusiasmo si premurava di tradurre le più belle poesie in musica per poi affidarle alle varie Vanoni e Mannoia. Ma veniamo all’edizione 2002 del premio della canzone d’autore. Due gli artisti brasiliani sul palco, con due proposte particolari. «Di Gilberto Gil sapevo più o meno tutto – racconta Silva – compreso il recente omaggio a Bob Marley. Bravo, bravissimo dal vivo, ce lo aspettavamo e non ha deluso. Scelte di suoni e arrangiamenti azzeccate, cuore e cervello mescolati insieme, voce. Un grande artista che non stava a noi scoprire. Chi invece (e lo dico da profano della musica brasiliana) mi ha letteralmente spiazzato è stato Arto Lindsay. Avevo ascoltato attentamente l’ultimo album, in cui tornava l’amore per la terra da cui si è fatto adottare, ma l’artista che avevo in testa era quello cerebrale dei Lounge Lizard, lo sperimentatore di suoni, il rumorista, lo scompositore delle radici brasiliane, lo scienziato dei suoni che innestava Bahia nella low-side di Manhattan. Non arrivavo a sperare che avesse un calore, un’anima verdeoro da sprigionare sul palco. Siamo rimasti tutti a bocca aperta. Che grande artista, che uomo meraviglioso. Ha confinato la sua indole da santone new-age e da autore di musica contemporanea, il suo piglio da innovatore e di manipolatore di suoni per farci assaporare un Brasile diverso, attuale e allo stesso tempo vicino alle radici. E poi, un uomo semplice, posato, simpatico, per nulla artefatto».

Dai diamanti non nasce niente, diceva Fabrizio de Andrè, dal “letame” di quella pop-art musicale a volte incomprensibile nascono anime calde, intelligenti e sensibili come Arto Lindsay. E grazie al concime organico musicale del Festival della canzone italiana i gustosi porcini del premio Tenco proliferano da ventotto anni. Con qualche tartufo brasiliano ogni tanto.