A volte ritornano: la Seleção a Parreira

Affidato a un tecnico di grande esperienza il compito di
traghettare la nazionale ai Mondiali del 2006 in Germania

 

 

di Maurizio Mazzacane

    Vengono, vanno. Alcuni ritornano. Molti passano, vincono e perdono: poi si eclissano, abbastanza presto o piuttosto tardi. Scegliendo il momento, oppure costretti. Accusando le ritorsioni del tempo e del risultato, oppure lasciando un’impronta, un segno, un solco. Altri salutano, sperimentando altre strade. Abdicano, inseguendo stimoli nuovi. Ma, talvolta, ricompaiono. Per il piacere, per il prestigio, magari per la nazione. Anche e soprattutto per l’ingaggio: generalmente cospicuo. Assai cospicuo. In un solo vocabolo omnicomprensivo: per il calcio. E per il fascino che dal calcio trasuda. Commessi viaggiatori della panchina, ambasciatori di un’idea, di uno schema, di un modulo, di un progetto: da verificare, giornalmente. E da confrontare: con i giocatori, con le società, con la stampa, con l’opinione pubblica. Con il mondo. Allenatori, direttori tecnici, cittì: tutti dipendenti pubblici di un obiettivo, il successo. E tutti candidati a pagare, se necessario. E, spesso, anche quando non lo è.

Carlos Alberto Parreira, nella famiglia della Seleção, ci entra sufficientemente giovane. Anno millenovecentosettanta: un altro tempo, un altro calcio. Personaggio emergente, mastica calcio all’ombra del signore della panca verdeoro: Mário Zagalo, un mito. Già allora. I Mondiali messicani sono una festa: ci partecipa anche lui, defilato. Quattro anni dopo, in Germania, la strada che conduce al terzo posto è sbarrata dalla Polonia di Deyna, Kasperczak e Gadocha: lo stratega del Brasile è ancora Zagalo; Parreira è un assistente in piena formazione tecnica. Destinato alla conduzione di club prestigiosi e a stipendi golosi, autorizzato a vincere. Applicando anche un buon football: particolare che non guasta, soprattutto se il risultato è spesso favorevole. Credito spendibile, a breve o medio termine. Buono per scalare posizioni, per puntare al gradino più alto. Per riabbracciare la Seleção. Per puntare ai Mondiali: da vivere, questa volta, in prima linea. Con il titolo principale, con il massimo onore. E con la massima responsabilità.

Anno millenovecentonovantaquattro: Parreira è la guida tecnica della spedizione statunitense. La nazionale auriverde ha dimenticato l’ebbrezza della vittoria, dispersa ventiquattro anni prima. Blasone e fantasia meritano un attestato ufficiale, il quarto. Non è riuscito a recuperarlo neppure Telé Santana, con una squadra spumeggiante, nell’ottantadue: il disastro del Sarrià, di fronte all’Italia di Rossi, è ferita ancora viva. Oppure, nell’ottantasei, con una formazione schiantatasi ai calci di rigore, di fronte alla Francia. Il Mondiale è cosa seria: faccenda di popolo, questione d’orgoglio nazionale. Vincere è un verbo che non possiede alternative. La Seleção recepisce e onora l’invito: la finale di Pasadena riconsegna, dall’altra parte del campo, l’Italia. E’ l’Italia di Sacchi, profeta di un calcio più propositivo. E’ l’Italia di Baggio e Baresi, imprecisi dal dischetto, nell’ultimo atto. Il Brasile si vendica: dello schiaffo di Barcellona e del destino, contemporaneamente. La lotteria dei rigori, questa volta, precede i sorrisi. Carlos Alberto Parreira è il caudillo della nazionale tetracampeã. La scommessa è vinta: ora può dileguarsi, guadagnare dollari altrove.

Parreira parte, la Seleção resta. In Francia (1998) la finale, contro i padroni di casa, è amara. I dettagli di una caduta rovinosa restano oscuri. Ma in Giappone e in Corea, e questa è storia recente, l’epilogo si fa nuovamente felice. La firma sul titolo numero cinque è di Luíz Felipe Scolari, gaúcho lungamente avversato. Felipão gode e, subito dopo, si apparta, preferendo varcare l’Oceano: raccoglie la proposta della federazione portoghese, superando l’ostracismo dei tecnici lusitani, promettendo il titolo europeo. Un’altra sfida. La nazionale brasiliana, intanto, è senza guida. Occorre onorare il recente titolo mondiale, in casa della Corea: è un’amichevole e, in panchina, va Mário Zagalo, un tecnico per tutte le epoche. Una soluzione temporanea, una gratificazione. Ma il futuro è in fase di allestimento. Teixeira, l’uomo forte della Confederazione calcistica, deve valutare, deve scegliere il nocchiero nuovo. Nel duemilasei, in Germania, il titolo va difeso, strenuamente. Serve un nome. Serve l’esperienza. Serve il carisma. Wanderley Luxemburgo è un’ipotesi che cade. Levir Culpi non convince del tutto. Oswaldo de Oliveira, trainer del São Paulo, è corteggiato lungamente. Tutto sembra definito, la presentazione ufficiale è già praticamente fissata, poi il meccanismo s’inceppa: a causa di problemi irrisolvibili con la società tricolore, si dice. Intanto, la Cbf ha individuato il tutore. Il saggio che, cioè, dovrà coordinare l’intero settore tecnico, sovraintendere. E, evidentemente, collaborare strettamente con un selezionatore che ancora non c’è.

Il tutore possiede un passato e persegue un futuro. Si chiama Mário Zagalo. E’ una soluzione sicura, è il vecchio che avanza. E’ un’operazione che nessuno può avversare. E’ una decisione che sta bene a tutti. Guardare oltre, allora, si può. Anzi, si deve. Manca solo un tassello: l’allenatore. Teixeira si affretta e decide: il calcio brasiliano si riaffida a Carlos Alberto Parreira, tre mondiali dopo. Sorprendentemente, ma non troppo. Certo, la trattativa è persino sofferta: il Corinthians, vicecampione del Brasileirão, vorrebbe ripartire da lui, con lui. Ma il richiamo delle Seleção è grande. Gli argomenti assai seri. Il gusto della sfida, la seconda, è irresistibile: “Avrei potuto guidare la nazionale in Giappone e in Corea, sapete che rifiutai. La pressione, allora, era insostenibile. Ho preferito soprassedere. Adesso, il Brasile è già pentacampeão: quella pressione non c’è più. E’ per questo che ho accettato”. Felice e riassoldato. E pronto a vagliare: “Romário? Conoscete perfettamente la stima che nutro nei suo confronti: ma nel 2006 sarà anziano per sostenere un Mondiale. Ci sono altre opportunità”. Vengono, vanno: alcuni ritornano. Per riappropriarsi di un piacere. Per il gusto di ridiscutersi. Per ambizione pura, mai sopita. Perché il calcio è anche questo. Parreira e la Seleção, la storia riprende. L’obiettivo è quello di sempre: imporsi. Ovviamente, con il gioco.