L'orologio

 

di Christiana de Caldas Brito

 

 

 

 

       “Qualcuno della famiglia deve venire.”

Clara, mia sorella, fece di no con la testa.

“Vengo io”, dissi.

Rifiutai il cappello di paglia. Loro due usavano quelli dalle larghe falde. Lo notai mentre camminavamo, salendo la collina, sotto il sole bruciante. Passammo prima davanti ai ricchi mausolei dagli epitaffi magniloquenti, in mezzo ad angeli di marmo e madonne che piangevano. Se è vero che le classi sociali continuano nei cimiteri, eravamo nell'alta borghesia. Ma presto ci addentrammo in piena classe media, dove nei vicoletti disposti geometricamente non mi fu difficile riconoscere la tomba di famiglia, una lapide grigia con la croce semplice e il nome di mio padre.

I due becchini tolsero la lastra dalla tomba, estraendo con delle corde la pesante bara. In silenzio, svitarono il coperchio. Mi guardarono per sapere se potevano andare avanti. Acconsentii. Il coperchio fu alzato. Con stupore osservai mio padre: esattamente uguale a come l'avevamo sepolto. L'unica differenza era la tonalità olivastra della pelle. Sembrava fosse andato a letto e si svegliasse adesso, alla luce del sole. Solo che la notte era durata un quarto di secolo.

Cercai di mantenere la calma. In quel preciso momento, lui aprì gli occhi e mi fissò:

“Figlio mio, sei tu?”

Iniziai a tremare. I becchini erano spariti. Papà mise un piede fuori della bara e con la mano sinistra tolse un po' di terra dalla spalla:

“Ah, come sono indolenzito.”

Delicatamente si liberò del rosario attaccato ad un bottone della giacca. Lo posò sul coperchio della bara e si alzò lentamente, come se le articolazioni gli facessero male.

“Quanto tempo mi avete lasciato qui?”

Non c'era alcuna recriminazione nella sua voce.

“Quanto?”

Voleva una risposta.

“Venticinque anni, papà”, a malapena riuscii a farmi sentire.

“Venticinque anni… E adesso perché mi venite a prendere?”

Non sapevo come dirglielo. Avrebbe ancora sofferto o le barriere della sofferenza erano già state superate?

“Si tratta di mamma, papà.”

Vedere mio padre giovane, non in fotografia ma vivo, era fuori di ogni logica. Ma cosa mi succedeva? Perché mi riferivo a mio padre come giovane e vivo? Non era uscito dalla bara? Però parlava e si muoveva…

“Dimmi, come sta tua madre.”

Papà, mamma… è morta ieri sera.”

“Armanda…”

Lui abbassò la testa. Una lacrima, sì, una lacrima, la prova che fosse veramente vivo, scivolò sulla sua faccia olivastra.

“Com'è accaduto?”

“Un tumore, papà.”

Ripeté la parola per darsi più tempo:

“Tumore…”

Per qualche minuto restò in silenzio.

“Quanti anni hai, adesso?”

“Trentasette, papà.”

Lui sorrise: “Un uomo maturo.”

“E tu, papà, ne hai sessanta, vero?

“Ho per caso l'apparenza di un uomo di sessant'anni?”

“Assolutamente no! Sembri più giovane di me.”

“Io sono più giovane di te! Ho trentacinque anni.”

“Papà, non è passato il tempo per te?”

“Tempo? Non mi ricordo cosa sia.”

Si guardò le unghie:

“Ah, sì, il tempo… “

Avvicinò le mani al viso:

“Dovrò fare la barba. Possiamo andare.”

“Come, papà?”

“Sono pronto.”

“Pronto per cosa?”

“Per ritornare.”

“Ritornare dove?”

Lui guardò il coperchio della bara:

“Hai aperto questa porta oscura…”

Era troppo duro rivelargli che doveva essere esumato per dare spazio alla mamma. Non ero neanche sicuro se in circostanze come quelle i morti fossero esumati. Voglio dire: i morti-vivi erano esumati come i semplicemente-morti?

“Papà, forse è meglio aspettare un po'. Mamma sarà sepolta alle due e sono solo…”

Guardai l'orologio. Era fermo. Papà esclamò in un tono gioioso:

“Il mio orologio!”

Anch'io ero stato colto dalla sorpresa:

“Sì, mamma ha creduto che dovessi avere l'orologio che era stato di mio padre, cioè, tuo.”

“Fammelo vedere.”

Glielo consegnai. Sorrise mentre girava tra le mani l'orologio. Forse si ricordava di un tempo trascorso troppo in fretta.

“Lo carichi tutte le sere?”

“Tutte le sere, papà.”

“E perché si è fermato?”

“Ieri sera, papà, mamma… a dire il vero, non ci ho pensato. E' la prima volta che questo succede da quando sei morto.”

Lui caricò l'orologio e lo mise al polso:

“Forse adesso mi sarà utile, non pensi?”

Non sapevo cosa rispondere. Pieno di una paura calma, osservavo quell'uomo, mio padre, che non vedevo da venticinque anni. Ero quasi felice.

“Ho fame” lui mormorò.

Mi ricordai del panino che Clara aveva preparato. Lo trovai in tasca e glielo diedi. Lui aprì la busta di cellophane, si sedette sul bordo della bara e iniziò a mangiare. Non ero proprio sicuro se fosse conveniente, ma osai fare lo spiritoso:

“Papà, hai una fame di venticinque anni…”

Lui si mise a ridere e io con lui. Non ce la facevamo a smettere.

“Sai che non ricordo di aver mai riso insieme a te, papà?”

“Eri piccolo…”

Non mi sforzai per afferrare il senso di quello che aveva detto. Era bello ridere in un cimitero, chiacchierando con il proprio padre appena uscito dalla tomba. Più ci pensavo e più ci ridevo.

“E Clara?”

Rimasi in silenzio.

“Mi hai sentito?”

“Sì, papà.”

“Dimmi come sta.”

“E' molto cambiata, papà.”

Era difficile raccontare le trasformazioni di mia sorella: l'uscita dal convento, la sua lotta politica, l'appartenenza a gruppi estremisti, l'abbandono da casa… Mi auguravo che lui non chiedesse nulla di mamma.

“E Armanda?”

“Cosa, papà?”

“Ha avuto un altro?”

Feci un gesto come a dire: inevitabile, no?

“Si è risposata?”

“Sì, papà, un anno dopo.”

“Dopo cosa?”

“La tua morte.”

Perché comunicare queste notizie ad un morto? Come comportarsi se il morto è vivo ed è tuo padre e fa delle domande?

“E tu?”

“Sono funzionario in un ministero.”

“E la Fisica?”

“Non ce l'ho fatta.”

Lui si alzò e diede un calcio alla bara:

“Ho nipoti?”

“Una bambina, figlia di Clara, morta a due anni.”

Lui alzò la mano. Per proteggersi dal sole, forse.

“Meningite, papà.”

Era difficile rivelare la vita ad un morto. Quello che adesso raccontavo, per triste o tragico che fosse, era stato parte della nostra vita di famiglia e, a poco a poco, c'eravamo abituati. Il tempo aiutava, è vero. Ma per i morti, quelli fuori del tempo, doveva essere doloroso non avvicinarsi gradualmente ai fatti.

“Con chi si è sposata Clara?”

“Clara non si è sposata, papà.”

Lui guardò il cielo:

“Speriamo che piova.”

Nella sua voce oscillava un residuo di stanchezza. Lentamente si sedette dentro alla bara. Prese il rosario e lo arrotolò tra le dita. Si sdraiò:

“Sono pronto” sussurrò, chiudendo gli occhi.

I due becchini erano tornati. Uno di loro si avvicinò a me:

“Lei sta bene?”

Volevo sembrare normale, ma l'uomo mi guardava spaventato:

“Possiamo cominciare?”

L'altro becchino mi offrì il suo cappello:

“Lo metta. Con questo sole non si scherza. Alcune persone svengono, altre…

Mi girai, allontanandomi. Il sudore mi scorreva sul viso. Dopo pochi passi, mi sentì chiamare:

“Signore, può venire un momento?”

Ritornai presso la bara dove papà, tranquillo, riposava.

“Lo prenda. Dev'essere di valore. Era con il morto.”

Presi l'orologio e lo guardai tra le mie dita accaldate. Le lancette segnavano l'ora esatta di seppellire mia madre.