La Seleção prevale per mancanza di avversari

Contro ogni aspettativa il Brasile vince il suo quinto Mondiale

 

 

di Maurizio Mazzacane

 

Ce l'ha fatta. Per la quinta volta. Contro ogni previsione, e non solo quelle della vigilia. Superando con un secco 2 - 0 una Germania irriconoscibile, la Seleção si è aggiudicata la Coppa del mondo. Ma la strada verso questa inaspettata vittoria non è stata facile. Ripercorriamola tappa per tappa. 

Segnali malvagi. Il cammino di Coppa dell’èra Felipão è subito sdrucciolo. Rafforza le idee degli scettici, si nutre di dubbi: nella migliore delle ipotesi, chiede comprensione e controprova. Scolari simula situazioni di gioco estreme, Emerson si sistema tra i pali, si tuffa e chiude l’avventura troppo presto. Infortunio insanabile, il Brasile perde il metronomo. L’unico metronomo. Il problema è un bel problema, prima ancora di cominciare: Emerson riparte e il tecnico chiama Ricardinho del Corinthians. Felipão assicura: “Con Parreira è diventato un altro, ha coscienza tattica e arriva in un momento di crisi creativa nel settore sinistro del centrocampo. Ma, soprattutto, arriva per giocare”.

 Poi, ecco la Turchia. L’esordio è faticoso: lo svantaggio è rimediato dall’irruzione del motivatissimo Ronaldo, il sigillo della vittoria è di Rivaldo. Ma il penalty che lo determina è avversatissimo, a ragione. Il Brasile non è ancora il Brasile. E ancora: Rivaldo è scorretto e lascia credere ciò che non avviene, si finge colpito al volto da un avversario e crolla. La Fifa non gradisce inganni e simulazioni, gli risparmia la sospensione, ma lo multa. Pesantemente. I contorni dell’episodio, però, non sfumano. Scolari parla di “squadra che si è aperta”, ma non drammatizza.

Ma il Mondiale, col tempo, si intenerisce. Di fronte alla Seleção passa la Cina, che quasi scompare: quattro gol contro zero. Al secondo tentativo, il commissario tecnico allenta la tensione: “Ci siamo, anche se questi risultati non vogliono dir nulla”. Roberto Carlos, protagonista incontrastato sulla corsia di sinistra, infonde personalità e sentenzia: “Questa squadra dispone di gente intelligente in mezzo al campo”. Vero: la linea mediana imposta, suggerisce, fa respirare il modulo, cerca soluzioni alternative. Cioè, pensa e crea. Davanti, Ronaldo c’è: non solo numericamente. Si fa trovare, replica l’acuto dell’esordio, è felice. Rivaldo, infortunio e comportamenti a parte, appoggia, si sente.

Ronaldinho Gaúcho, invece, è quel qualcosa in più che ipotizza e conclude. Il suo sorriso contagia. Eppure, nessuno storicizza la qualificazione alla seconda fase, già certa dopo due match. Perchè il cammino è ancora lungo e misterioso. Perchè Cina e Turchia non svelano quello che la gente vuole sapere. O forse perchè l’assetto difensivo non tranquillizza ancora. Felipão non gradisce e pubblicizza il proprio disappunto: “In Brasile si enfatizzano solo gli aspetti negativi della Seleção. Le domande degli operatori dell’informazioni sono solo cattive”. Poi, alla fine, ammette: “Certo, la squadra sbaglia ancora molti passaggi. Occorre provvedere”.  

Il contenzioso con Costarica è pura formalità, privata di ogni tensione: gioco aperto, conclusioni e gol, distanza dagli schemi, soluzioni in libertà. Persino spettacolo: il cinque a due è accademico, salutare. Per il morale, innanzi tutto. Rivaldo rivela: “Il rendimento di questo Brasile dà fiducia in prospettiva futura”. Dilaga il buon umore. Ronaldo segna ancora, Scolari si disfa della patina burbera. La Seleção lascia la Corea e atterra in Giappone: gli ottavi di finale offrono subito il Belgio, complesso tradizionalmente piatto, ma ostico. Sullo sfondo, un’unica certezza: la Coppa del Mondo, quella vera, è appena cominciata.

Perché il Belgio, anche se non affascina, riesce a smascherare limiti già sospettati, quelli che intralciano la Seleção nella conservazione del risultato. Wilmots scudiscia l’armata di Felipão e buca Marcos: accorre però il direttore di gara, invalidando la segnatura. Erroneamente, provvidenzialmente. Poi, il Brasile ribadisce di sapersi ritrovare con agio dalla metà campo in giù, sistemando la questione. Non senza patire: l’impressione è quella di una nazionale scollegata tra i reparti, indissolubilmente dipendente dall’abilità dei singoli.

L’Inghilterra, avversario nei quarti, riassume –almeno teoricamente- le qualità di collettivo vero. Attende la Seleção nella propria trequarti e trova il gol: Lúcio apre la strada ad Owen e lo svantaggio fa preoccupare. Le incertezze difensive, ancora una volta, minacciano la credibilità verdeoro. La svogliatezza inglese, tuttavia, soccorre quanto la progressione e la personalità di Ronaldinho Gaúcho: l’invito imbucato per Rivaldo è lussuoso, il pareggio rimediato. L’infelice piazzamento di Seaman, guardasigilli di Eriksson, regala invece il biglietto per la semifinale di Saitama: il due a uno sgorga all’improvviso dal piede sapiente di Ronaldinho Gaúcho, uomo del match, su calcio franco. Lo score non cancella i dubbi, però: anche se la Seleção resiste in inferiorità numerica. Demerito –asseriscono le cronache- di un’Inghilterra incapace di imporre ritmo e gioco, indolente. Merito –aggiungono i fatti del campo- della capacità di saper gestire il pallone tra i piedi: nessuno è brasiliano impunemente. Ovvero, quando la tecnica riesce ancora a sopperire alle disfunzione del modulo: accade persino nei Mondiali che premiano assetto e solidità, mortificando i diritti di quanti credono di produrre calcio pensato. “Questa squadra è una famiglia” si affretta a far sapere Scolari. “C’è determinazione, unione e lo stesso spirito che ha animato le formazioni di club che ho allenato in passato”. Le accuse di gioco duro non lo scalfiscono neppure: “Il Brasile gioca secondo le caratteristiche dei suoi giocatori. Non gioca in maniera meravigliosa, ma è competitivo”. Punto e a capo. 

Eppure, qualche timore continua a inquietare. La semifinale, intanto, trascina in dote una formazione gasata e arrabbiata, già conosciuta, battuta e sofferta, priva di pédigrée, ma animata da principi veraci: si scrive Turchia, si pronuncia tenacia. La Seleção si aggrappa ai polmoni e alla corsa di Cafu e Roberto Carlos, scova i varchi giusti e, in apertura di ripresa, timbra il gol che saprà difendere sino al novantesimo. Il disegno astuto e vincente di Ronaldo precede l’irritante processione delle occasioni fallite che potrebbero sigillare il match molto prima della sua fine, ma va bene lo stesso, anche e soprattutto perché, tra i pali, Marcos è attento. Come a dire: in silenzio e senza mai convincere pienamente, il Brasile si veste interamente della propria autorità, rispettando pronostici e blasone. Sì, perché il primo Mondiale del terzo millennio si affida alla tradizione: la tradizione della Seleção e quella della Germania di Völler. Di fronte, nella finale di Yokohama: per la soddisfazione di tutti, si dice.

Ecco, la finale inedita: non troppo intensa e non troppo tirata. Neppure eccessivamente coinvolgente: semmai equilibrata, dunque godibile. Interpretata senza troppa muscolarità e senza fantasie debordanti: mistura attenta tra il realismo e le moderne applicazioni, dove vince chi segna prima dell’avversario. Cioè il Brasile, cioè la squadra più completa, o almeno quella meno lacunosa. O meglio, quella che conclude di più. Vince il Brasile, sì: perché Ronaldo veste di giallo e di verde. Due gol, due lampi, due intuizioni. Perché la Seleção possiede più alternative di gioco. Perché Kahn frana sul primo difetto del proprio Mondiale. Perché, conteggiando pregi e disfunzioni, qualità e limiti, il Brasile è complessivamente, oggettivamente più affidabile, più forte. Perché, forse, era scritto: sin dal momento in cui proliferavano le eliminazioni precoci delle favorite dal pronostico, magari. Vince il Brasile e il Brasile è pentacampeão: ed è tutto vero. Malgrado i dubbi, certe sofferenze, lo scetticismo di tanti. Malgrado certi segnali malvagi.