Vernissage

di Julio Cesar Monteiro Martins

 

 

 

Da otto ore io e Marina ci davamo il cambio al volante della macchina, quando finalmente arrivammo in città. Viaggiavamo attraverso uno degli stati più poveri del paese, ma credevamo che nella capitale avremmo trovato alberghi migliori e qualche confort. Eravamo ormai esausti per le lunghe distanze che da tanti giorni andavamo percorrendo.

            Riempimmo il serbatoio della macchina prima della chiusura dei benzinai e cercammo un ristorante. La capitale di quello stato consisteva appena in un lungo viale, che iniziava dall’aeroporto, utilizzato praticamente da tutti quelli che rischiavano di arrivare o di partire da lì, e terminava nel Palazzo del Governatore, un edificio solenne che imitava un tempio dell’Antica Grecia.

            Percorremmo in macchina almeno due volte quel viale, e anche alcune strade trasversali, ma non trovammo nessun ristorante aperto. Forse perché era un lunedì, giorno senza movimento, o forse perché i ristoranti di lì si trovavano distanti dal centro della città. Alla fine, la fame ci afferrò a tal punto che prima di procurarci un albergo, decidemmo di fermarci in un bar e mangiare in piedi qualche sandwich accompagnato da una bibita.

            Il barista sembrava assonnato. Cacciò qualche mosca che si era posata sul formaggio e ne tagliò alcune fette spesse che infilò dentro il pane. Mangiammo in silenzio, interrotto appena dall’uomo che sbatteva un panno sporco contro il vetro del balcone, fingendo di spaventare mosche che di certo gli erano ormai intime. Marina mordeva il pane e cercava qualche complicità nei miei occhi che alleviasse la sua momentanea insicurezza.

            Mentre masticavamo, cominciammo a percepire uno strano movimento di automobili davanti al bar. Alcune macchine di grossa cilindrata passavano, altre tentavano di parcheggiare lì, ascoltavamo voci, risate, e sportelli di macchine che sbattevano. Il movimento crebbe tanto rapidamente che subito non ci fu dove parcheggiare nelle vicinanze, e vedevamo le stesse macchine passare anche tre volte difronte a noi alla ricerca di un posto.

            Decidemmo di camminare sino alla porta del bar per scoprire verso dove andava tutta quella gente. Dall’altra parte della strada, sulla nostra destra, c’era una piccola casa tutta illuminata, dove si leggeva su una placca di legno sopra la porta: “Galleria d’Arte”.

            Marina comprò due tavolette di cioccolata, pagammo il conto e uscimmo dal bar in direzione della macchina. Io avevo perso almeno un chilo in quel pomeriggio, consumato dalla tensione dei camion che ci incrociavano e dai sorpassi rischiosi. Il mio corpo era tutto indolenzito, e quando chiudevo le palpebre, vedevo i fari crescere rapidamente nella mia direzione. Ero distrutto, e di sicuro Marina si sentiva come me.

            Attraversammo la strada e per arrivare alla nostra macchina dovevamo passare di fronte a quella Galleria, che a quel punto ormai era superaffollata di invitati, sicché il tintinnare dei bicchieri e le risate echeggiavano nelle strade deserte della capitale.

            Marina passò il braccio con tenerezza attorno alla mia vita, quando passammo davanti all’ingresso della Galleria. Approfittai della calma della nostra stanchezza per dare una occhiata dentro la sala attraverso il vano della porta semiaperta. Feci questo per un impulso infantile, e non appena il mio volto si appuntò sull’ambiente affollato, tutti si volsero verso la mia direzione, i loro volti si aprirono a larghi sorrisi, con le braccia levate in alto, e in un saluto generale:

              Attenzione! Eccolo là! È arrivato il nostro artista...

            Immediatamente, una signora pesantemente truccata, con i capelli biondi gonfiati dalla lacca, venne a prendermi per la mano e mi condusse al centro della sala dove gli invitati aprirono un cerchio. Per un motivo indefinito, la mia sorpresa era minore di quanto ci si potrebbe aspettare. Ho solo cercato il volto di Marina, e l’ho incontrato anch’esso sorridente, con un aria di divertita tranquillità.

            La signora dei capelli gonfiati mi presentò una ad una le persone presenti, tutte con abiti costosi, ma un tantino esagerati e fuori moda. Esse ripetevano parole gentili, complimenti accompagnati da movimenti della testa e calorose strette di mano. Sembravano essere tutti felici e orgogliosi della mia presenza in quel vernissage.

              Vieni qua. Ti voglio presentare il nostro sindaco, il dottor Correia.

             Molto piacere.

              Il piacere è nostro. È un grande privilegio averla qui con noi. E complimenti per la bellissima mostra di cui ci ha omaggiato...

            Solo in quel momento, dopo l’elogio strampalato di quel sindaco, feci attenzione ai quadri esposti uno accanto all’altro, sulle pareti della Galleria. Erano paesaggi marini dipinti da qualche amatore, col predominio di toni azzurri e una tecnica impressionista povera, dove barchette scure erano scosse da onde appuntite e irreali. Nell’angolo inferiore destro, in un tono marrone che sfumava nel vermiglio, uno scarabocchio incerto scriveva il mio nome su ogni quadro. Quello poteva essere soltanto uno scherzo di pessimo gusto. Da molti anni io dipingevo soltanto quadri astratti e li firmavo sempre dietro la tela per non interferire nella composizione. Non ricordavo di aver dipinto un solo paesaggio marino in tutta la mia vita, inclusi gli anni di scuola.

              Cosa ne pensi? –   mi disse la mia sorridente anfitrione.

              Sono miei?

              E ormai sono già quasi tutti venduti. Non è ottimo? E qui c’è un whiskino per il nostro artista, e qui alcune copie del nostro invito perché tu le conservi nella tua cartella.

            L’invito era stampato su una carta sottile setinata e piegata in due fogli. A fronte  portava il mio nome, il luogo e la data dell’evento, e la riproduzione di uno di quegli orridi paesaggi marini a me attribuiti. La seconda pagina riportava il mio curriculum completo. La terza presentava un testo su queste marine, infarcita di aggettivi magniloquenti, in un stile pastoso e antiquato. Veniva firmato da un tale Herval Lombardi, di cui io non avevo mai sentito parlare, e subito sotto il suo nome stava scritto: critico d’arte.

            L’ultima pagina era illustrata da una mia fotografia, di fronte a un cavalletto con un pennello e la paletta in mano, sorridente verso la macchina fotografica. Non avevo mai visto quell’espressione in me. Nonostante io sorridessi, il volto era invecchiato, gli occhi tristi, quasi disperati. Tuttavia, non c’era dubbio che quello ero proprio io.

            Mi rigirai e mi tranquillizzai con la presenza di Marina. Le diedi gli inviti perché li mettesse dentro la borsa e tracannai metà dose dello whisky che mi avevano servito. La stanchezza del viaggio richiedeva il suo giusto prezzo. Bisognava che riposassi. La testa pulsava, e le frasi sfreccianti e tagliate da risate e brindisi divenivano per me incomprensibili. Mi tiravano per il braccio, uomini calvi, dal volto paonazzo per il bere, matrone curiose che odoravano di forti profumi francesi, pronunciavano frasi eccitate alle mie orecchie, io ringraziavo imbarazzato, quelle sbarravano gli occhi, e subito dopo un altro uomo sconosciuto metteva il braccio sopra la mia spalla e come se fossi un amico di vecchia data diceva qualche frase maliziosa che sperava io comprendessi subito e sorridessi a mia volta. Mi sentivo straziato, come un unico pezzo di carne tirato dalle mascelle di molti lupi famelici.

            Cercai nuovamente Marina e non la trovai. Mi feci strada tra la moltitudine sudata, attraversando una densa nebbia di fumo di sigarette e voci sciolte, e avvistai Marina dall’altra parte, nel fondo di una sala contigua, che spiegava alle signore che la circondavano qualcosa che indicava su una delle pitture marine, la più kitsch di tutte, con un tramonto color bordeaux e arancione che produceva trattini violacei sopra le vele gonfie di tre caravelle in fila, probabilmente in cammino per l’America. Divenni nervoso con quel quadro. Non c’entrava nulla con me. Era veramente tremendo, tanto di cattivo gusto che stonerebbe persino nei salotti dei cafoni arricchiti. Afferrai Marina per il braccio e riuscii ad allontanarla per qualche momento dalle signore eleganti che la crivellavano di domande imbecilli:

              Marina, per amor di Dio, che sta succedendo qui?

              Amore mio, siamo alla mostra delle tue opere nella capitale dello stato.

              La mia opera... queste barche. Non ho mai dipinto questi quadri orribili...

              Stai buono, tesoro... Il tuo vernissage sta avendo successo. Se tu vai in giro a ripetere queste cose penseranno che sei già ubriaco, oppure che sei ingrato con i tuoi sponsorizzatori...

 

L'autore è nato a Niterói, in Brasile, nel 1955. "Fellow in Writing" presso l'Università del Iowa, negli Stati Uniti, ha insegnato Scrittura Creativa al Goddard College, nel Vermont, USA (1979-82), nella Oficina Literária Afrânio Coutinho, a Rio (1982-91), nell'Instituto Camões, di Lisbona (1994), nella Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995), e ha tenuto nel periodo 1995-99 corsi a Lucca, a Pistoia, a Forte dei Marmi e a Viareggio, in Italia. Ha pubblicato nove libri in Brasile, tra romanzi, racconti e saggi, con diverse traduzioni all'estero. In Italia ha pubblicato il libro "Il percorso dell'idea", nel 1998 e "Racconti italiani", (Besa Editrice, 2000). Autore teatrale, con diverse pièce messe in scena in Brasile e in Italia. Docente di Lingua Potoghese e di Traduzione Letteraria all'Università Degli Studi di Pisa. Ideatore dell'evento "Scrivere Oltre le Mura" e della Scuola Sagarana, e direttore della Rivista Sagarana on-line.