La violenza della democrazia razziale in Brasile

di Rogerio Diniz Junqueira

traduzione italiana di Dulce Rosa Rocque e Claudio Samori

"Un nero fermo è sospetto, se corre è colpevole.” (Iscrizione su una parete della Scuola di Polizia di São Paulo, prima della Costituzione del 1988).

 

(em portugues)

 

 

 

 

La “democrazia razziale brasiliana” è un mito ancora vivo e insidioso. In una nazione a cui piace immaginarsi senza razzismo, il tardivo riconoscimento da parte dello Stato dell'esistenza di questo problema non è stato accompagnato, ancora, da una politica pubblica di effettiva portata sociale per combatterlo. Recentemente, nientemeno che il capo supremo della nazione, in un intervento supposto contro il razzismo, ha affermato di possedere anche lui sangue africano nelle vene. “Ho il piede in cucina”, ha detto il presidente, lasciando intendere chiaramente quale sia, in questa società il “posto del nero”. Di fatto, come osserva Darcy Ribeiro, la lotta più ardua del nero brasiliano è per la conquista di un posto e del ruolo di partecipante legittimo nella società nazionale. Fino ad allora verrà chiamato di “negretto arrogante” nel caso non si attenga al proprio ruolo qual è secondo le aspettative tradizionali di umiltà e servilismo, riservate soprattutto ai neri in relazione ai bianchi.  

RAZZA E ETNIA

Non è mai stato facile parlare di razzismo e di discriminazione razziale. In Brasile come in qualunque altra parte del mondo. Su questo tema le controversie accademiche non sono mai state piccole. Basta semplicemente ricordare i dibattiti sull'improprietà del termine “razza” e sulle limitazioni del termine “etnia”. “Razza” ed “etnia” non sono “dati di fatto”, bensì concetti molto problematici. Non di rado viene definita l' “etnia” su base linguistica, ossia, facendo coincidere le frontiere dell'etnia con quelle della “lingua”. Così, un difensore del panturchismo può definire, senza titubanze, come “turco” perfino l'eschimese del nordest siberiano, giacché quest'ultimo si esprime in una lingua turcofona. Basandosi su questo criterio, in Brasile, dove è praticamente universale l'uso del portoghese nella sua variante brasiliana, saremmo quasi tutti della stessa etnia e non sarebbe possibile una “tematizzazione” della discriminazione etnica nel paese. E' per queste ed altre ragioni che, perfettamente cosciente dei problemi in ciò impliciti, che il “movimento negro” brasiliano (senza voler avallare l'idea che esso sia un gruppo unico e che non conosca enormi controversie al suo interno), il più delle volte, ha preferito adottare il concetto di “razza”. Questi attivisti sono coscienti che razza non è una realtà biologica, ma un concetto politico, la cui applicazione sociale si è rivelata un formidabile strumento di disumanizzazione e di promozione di privilegi e disuguaglianze. 

 
RAZZISMO INESISTENTE E ANTI-RAZZISMO ALIENIGENA

Magari le difficoltà fossero soltanto accademiche! Potremmo dormire più tranquilli. Le maggiori difficoltà che vengono opposte quando si protesta contro l'oppressione razziale sono di ordine culturale, ideologico e, pertanto, soprattutto politico. In Brasile, i diversi regimi autoritari si sono sempre testardamente preoccupati di reprimere coloro che osavano rendere problematica l'applicazione delle ideologie razziste qui adottate, o lottare contro i meccanismi e le pratiche di discriminazione razziale. Il “movimento negro” fu accolto con sospetti e accusato, tra l’altro, di avvalersi di “ideologie esotiche” o “alienigene” tramite le quali inventavano “un problema razziale inesistente” o, più prosaicamente, di volere “creare antagonismi e odio tra fratelli”. Contro questo terribile pericolo lo Stato ha sempre fatto valere la propria autorità e energia. Anche in tempi di democrazia. Impossibile dimenticare l'emblematica repressione scatenata, a Rio de Janeiro, durante la commemorazione ufficiale (pertanto, bianca) del centenario dell'abolizione della schiavitù, nel maggio del 1988, già nel periodo post-dittatura (Cardoso, 1992: 30-37). In tale occasione, organizzazioni della società civile hanno promosso innumerevoli attività e manifestazioni in tutto il paese. Il giorno 11 maggio, a Rio de Janeiro, fu organizzato un corteo, debitamente autorizzato, contro il razzismo e in omaggio a Zumbi de Palmares, leader del principale e più famoso “quilombo” (termine di origine africana usato per designare le comunità solidali in cui vivevano soprattutto gli schiavi fuggitivi). E' necessario ricordare che il “movimento negro” in Brasile commemora il “20 Novembre”, anniversario della morte di Zumbi e non il “13 Maggio”, anniversario della firma della “Legge Aurea”, da parte della Principessa Isabel, che, cosí, nella versione ufficiale, ha concesso la libertà ai neri. Zumbi rappresenta la resistenza nera; Isabel, la “redentrice”, a sua volta, rappresenta la bontà bianca.In quell'occasione, il Comando Militare Est dell'Esercito divulgò una nota ufficiale spiegando che aveva dovuto occupare le strade del centro della città vista l’ “intenzione proditoria degli attivisti di utilizzare le commemorazioni del centenario per sovvertire la tranquillità della città di Rio de Janeiro”. E ancora: si doveva impedire che, “nell'ambito dei pretesi cortei”, con “obiettivi ben mirati e perfino inconfessabili”, tentassero, “di modo grossolano, di alterare i i fatti reali”, senza essere “sopportati da alcun dato storico-scientifico, bensì solo da mezze verità ed omissioni, divulgando al popolo distorsioni con propositi antipatriottici di creare antagonismi...” ecc. Il solito discorso.In poche parole: per la nostra vecchia destra, puntare il dito contro il razzismo sarebbe minacciare la sicurezza nazionale, avvalersi di “ideologie alienigene” in una nazione caraterizzata dalla “armoniosa convivenza delle classi”. Parafrasando Roberto Schwarz, possiamo dire che quelli che in Brasile accusano l’anti-razzismo di “ideologia alienigena” forse credono che il fascismo sia una invenzione brasiliana.
D'altra parte, mettere l'anti-razzismo nelle agende della sinistra non è stato molto più facile, dato che si deve, ancora oggi, riuscire a conferire la dovuta centralità alla lotta contro l'oppressione razziale nel paese. Nel periodo della resistenza alla dittatura militare, le forze che lottavano per l'instaurazione di un regime democratico non di rado provavano un forte disagio di fronte al sollevamento del problema del razzismo e del la discriminazione razziale. La sinistra aveva enormi difficoltà nel trattare la questione. Perché tante preoccupazioni con la discussione sul razzismo o altre cosiddette discriminazioni? Questo è tipico del capitalismo. Con la rivoluzione, una volta risolti i problemi “oggettivi”, i problemi “soggettivi” cadranno come un castello di carte, automaticamente. Oltretutto, dicevano altri, non esiste razzismo in Brasile, bensì una disuguaglianza economica... I neri sarebbero discriminati perché poveri. Ci sarebbe da chiedersi allora il perché di questa strana ostinazione dei neri a voler rimanere poveri.Molto si deve all'instancabile azione di innumerevoli attivisti neri, come Abdias do Nascimento, Edson Lopes Cardoso, Suely Carneiro e tanti altri, per inserire all'ordine del giorno delle sinistre la battaglia contro il razzismo in Brasile. Il sociologo Florestan Fernandes, il principale rappresentante del gruppo di intellettuali responsabili della demistificazione della democrazia razziale brasiliana, fu una figura centrale nel processo di cercare di far capire alle sinistre brasiliane che lottare contro le diverse forme di oppressione razziale nel paese sarebbe stata la maniera più efficace di combattere i meccanismi più perversi del capitalismo brasiliano. Razzismo e discriminazione sono produttori efficaci di privilegi per il gruppo razziale dominante, con forte impatto sull’intera struttura sociale. In questo modo, la “democrazia sarà una realtà soltanto quando ci sarà, di fatto, uguaglianza razziale in Brasile ed il nero non abbia da soffrire alcuna specie di discriminazione, di preconcetti, di stigmatizzazioni e di segregazione, sia in termini di classe, sia in termini di razza” (Fernandes, 1987: 71). 

 
DEMOCRAZIA RAZZIALE E IL POSTO DEL NERO

Il mito della democrazia razziale in Brasile è basato nella supposta inesistenza di meccanismi giuridici di segregazione e nell'affermazione che non esistono barriere all'ascensione sociale del nero, data l' “assenza di preconcetti e di discriminazione”.Il sociologo Gilberto Freyre, sebbene riconoscesse l'esistenza di un certo preconcetto razziale nel paese, è stato il principale trasmettitore di questo mito, attraverso la sua tesi che, qui, la distanza sociale tra i bianchi ed i neri fosse il risultato di differenze di classe, anziché frutto principale di preconcetti di colore o di razza. Secondo l'autore di “Casa-Grande & Senzala” (pubblicato nel 1933), il marchio del popolo brasiliano è la sua “anima doppia” (“duplicidade de alma”), che gli conferisce una speciale capacità di sopportare le contraddizioni e armonizzarle. Così, in Brasile, tradizionalmente, la ricerca di soluzione dei conflitti si realizzerebbe tramite l'integrazione o l'equilibrio degli elementi antagonici. Il brasiliano, figura transigente, avrebbe saputo conciliare opposizioni. Ecco la “nostra relativa democrazia etnica: ampia, anche se non perfetta, opportunità data a tutti gli uomini, indipendentemente della razza o del colore, perché si affermino quali brasiliani pieni” (Freire, 1971: 4-5). Freyre, distinguendosi dai suoi colleghi che rimanevano ancorati alle teorie razziste europee (Gobineau, Lapouge ed altri), vedeva positivamente la presenza dell'africano nella società brasiliana: il nero fu un agente della colonizzazione e ha svolto un importante ruolo civilizzatore. Freyre fu, per questo, oggetto di dure critiche all'epoca. Grazie a lui, si è verificata una transizione nell'abbordare la questione razziale: il dibattito ha guadagnato nuovi contorni nella misura in cui ha incorporato il discorso culturalista dell'antropologo Franz Boas, che relativizzava l'importanza della “razza” per la comprensione dei gruppi umani e sottolineava la rilevanza dell’ambiente, della storia e della cultura. Vediamo, però, se non ci sono ostacoli, perché il nero non è asceso? Malgrado le intenzioni di Freyre, il discorso circa la democrazia razziale, basato sull'uguaglianza formale ha finito per rafforzare la visione basata sulle principali ipotesi delle teorie razziste europee circa linferiorità naturale del nero. Mentre, da una parte, ci sarebbe stata una uguaglianza di diritti e di opportunità per tutti, dall'altro, gli afro-discendenti continuano a vivere dieci anni in meno dei bianchi, guadagnano quasi la metà rospetto ai bianchi, sono la maggioranza tra i disoccupati, fra i poveri, fra gli indigenti, fra gli analfabeti e di tutta l'orda dei diseredati. Allora, questo sarebbe da attribuire, fatalmente, alla loro intrinseca inferiorità. Ancora: non essendoci razzismo, non esiste nemmeno una motivazione alla protesta. “Noi non siamo razzisti, i neri conoscono il loro posto”.Qui, la povertà dei neri è così “naturalizzata” nel terreno delle rappresentazioni sociali che, quando un nero è visto “fuori del suo posto”, per esempio, alla guida di una macchina di lusso, suscita normalmente i sospetti della polizia o, nei migliori dei casi, diventa oggetto dei commenti dei passanti: “Dev'essere un autista, un cantante di ‘pagode’ o un calciatore”.Secondo l'avvertimento di Emilia Viotti da Costa, per capire le complesse percezioni dei modelli razziali è necessario guardare oltre i limitati quadri di riferimento delle relazioni razziali. Siamo abituati a dire in Brasile che, se non si ha una comprensione storica, si ha una comprensione isterica. Di fatto, la comprensione della situazione del nero nella società brasiliana attuale non potrebbe andar disgiunta da una riflessione a proposito del sistema schiavista e signorile che, però, ci farebbe andare oltre i limiti di questo articolo.Pertanto, è indispensabile rimandare il nostro lettore alle opere di Florestan Fernandes, Darcy Ribeiro, Sérgio Buarque de Holanda, Antonio Candido, Celso Furtado, Thales de Azevedo, Caio Prado Junior, José Murilo de Carvalho, João Ribeiro Fragoso, oltre a quelli già citati precedentemente. Una lista che continuerebbe, quasi senza fine. Un antidoto all'isterismo razzista, che attribuisce al nero tutta la colpa delle sue piaghe, spiegate come “caratteristiche proprie della sua razza” (come la pigrizia, l'ignoranza, la criminalità, tutte innate ed ineluttabili) e non come il risultato della schiavitù, di una abolizione incompleta e della continua oppressione.La stretta vincolazione tra la “condizione sociale di schiavo” e la “condizione di colore”, che era cominciata a definirsi a partire dalle “Grandi Navigazioni”, trovò nel continente americano mezzi per il suo consolidamento pieno. Già all'inizio dell'occupazione coloniale del Brasile, superata la brevi fasi dello scambo, fu imposto il regime di esplorazione del lavoro schiavo all'indio e all'africano. Venne, in modo graduale ed accelerato, costruita la più longeva e poderosa organizzazione schiavista delle Americhe. Così, in un tale scenario, come ci insegna Florestan Fernandes, le relazioni e le strutture sociali che avevano costituito un ordinamento sociale schiavista implicavano le più diverse forme di discriminazione razziale ed operavano nel senso del mantenimento delle posizioni e delle relazioni esistenti fra la “razza” dei signori e quella degli schiavi. Al nero era proibito l’accesso a ruoli sociali che presupponessero prerogative loro vietate per via della “condizione sociale” e per “colore”. Le elite, ciononostante, impareranno ad ammettere eccezioni per alcuni individui neri o “mulatti”.Nel secolo XIX, negli ultimi anni della schiavitù, venivano offerte poche alternative di inserimento al nero che si liberava legalmente dal giogo schiavista. Come mostra Maria Rosa Nogueira e Silva, il nero liberato non aveva posto alcuno nella società. Abbandonato alla propria sorte, alternava mendicanza e lavoro temporaneo (con una precarietà da far invidia ai più appassionati adepti della flessibilità neoliberista). Non di rado, l'ex schiavo doveva ricorrere a furti, aggressioni, assalti, fughe e ubriacature, giacché nel mondo dei signori non esistevano meccanismi atti a soddisfare le sue necessità e i suoi desideri. Quando trovava lavoro, era mal pagato e molto prossimo alla schiavitù. Con il collasso del regime schiavista, l'abolizione (1888) e la proclamazione della Repubblica (1889), si stabilirono le condizioni preliminari della tesi della “armonia delle razze, della pace sociale fra neri e bianchi e della cordialità del brasiliano”. Occorse allora la reinterpretazione del giogo schiavista in Brasile: “In nessun'altro luogo la nefanda istituzione presentò tratti tanto soavi, dolci e cristianamente umani”. Con l'abrogazione dello statuto servile, “il nero non ebbe più problemi”, poiché “le opportunità di accumulazione di ricchezza, conquista di prestigio sociale e potere erano state aperte a tutti”.Chiaramente. Il Brasile va a dormire schiavista e si risveglia una democrazia razziale. Nell'anno seguente viene composto l’inno della Repubblica, che a un certo punto dice: “Noi non crediamo che schiavi allora/Ci siano stati in così nobile paese...” Abbiamo nascosto sotto il tappeto la maggior macchia della nostra storia. E se questo è cosa di “allora” (“outrora” in portoghese, cioè, tantissimo tempo fa), oramai non sono lecite richieste di riparazione.

  
“IMBIANCAMENTO” SOCIALE, “IMBIANCAMENTO” BIOLOGICO E “TERRA NOSTRA”

Mai si sono avute nel paese ideologie segregazioniste come quelle dell'USA, in cui impera un “preconcetto di origine”, secondo cui qualunque discendente dall'unione di un nero e un bianco è considerato nero. Qui, dove una qualunque persona che non sia palesemente nera può essere considerata bianca, prevale un “preconcetto di colore”: una persona è bianca o nera secondo il suo aspetto. E non solo: alcuni possono smettere di essere neri attraverso il passaggio per un processo di “imbiancamento” (“branqueamento”) sociale e culturale.In Brasile, a partire dalla fine del secolo XIX, le idee razziste europee hanno subito una reinterpretazione, nell'ambito della quale furono eliminati due dei suoi principali presupposti: la natura innata delle differenze razziali e la degenerazione del sangue meticcio. Sebbene le elite brasiliane affermassero costantemente la propria fede nella superiorità dei bianchi, esse avevano i mezzi per accettare i neri entro le proprie file. Storicamente, il progressivo assorbimento del nero avveniva attraverso un processo di selezione ed assimilazione di coloro i quali si mostrassero maggiormente identificati con i settori dirigenti della “razza dominante” e coloro che ostentassero totale lealtà ai loro interessi e valori sociali. Le elite bianche potevano accettare entro la propria classe un nero meticcio di pelle più chiara (il “mulatto”), che acquisiva così lo status di bianco. L'assimilazione si verifica a misura che i neri, occupando una posizione di livello superiore, passavano ad identificare sé stessi come parte integrante della comunità bianca. Per uscire dal posto che la società gli aveva inizialmente designato, il nero dovette “imbiancarsi”, rinunciare alla sua identità e alla sua comunità. Un “imbiancamento” sociale che produsse il “nero dell'anima bianca” (“preto de alma branca”). A questo proposito, Darcy Ribeiro ricorda la risposta commovente del pittore nero Santa Rosa ad un giovane nero che si lamentava delle difficoltà opposte alle “persone di colore” nella carriera diplomatica: “Comprendo perfettamente il suo caso, mio caro. Anch'io sono stato nero”. Le elite bianche, ancora, hanno elaborato una visione secondo cui i “mulatti” si situerebbero, biologicamente ed evolutivamente parlando, a metà strada fra i bianchi e i neri. L'incrocio razziale era lodato e non criminalizzato, in quanto visto come possibilità di riscatto della “qualità della razza”. E ancora: il sangue buono e forte, il sangue bianco, avrebbe prevalso ed il paese, nell'arco di alcuni decenni sarebbe stato interamente bianco. L'allora direttore del Museo Nazionale di Rio de Janeiro, lo scienziato João Batista Lacerda, in occasione della sua partecipazione al I Congresso Internazionale delle Razze, tenutosi nel 1911, presentò la tesi che fosse “logico supporre che, agli inizi del nuovo secolo, i meticci sarebbero scomparsi in Brasile, fatto che sarebbe coinciso con la parallela estinzione della razza nera fra di noi”. Un “imbiancamento” biologico, eugenetico. In questo senso convergeva l'incentivazione all'immigrazione europea nel paese: renderlo sempre più bianco, elevare la qualità del patrimonio genetico nazionale.Man mano che il regime schiavista dava segnali di essere prossimo al crollo e si facevano più profonde le trasformazioni socio-economiche, soprattutto nella regione centro-meridionale del paese, le classi dominanti ristrutturarono efficacemente il proprio sistema di reclutamento della forza lavoro, soppiantando la mano d'opera schiava con gli immigranti soprattutto europei. Si vide allora l'immigrante europeo come agente naturale del lavoro libero, come speranza di progresso e di “imbiancamento” della nazione. L'immigrante non arrivava semplicemente per occupare il posto dello schiavo, bensì un posto nuovo in una nuova struttura di lavoro, propria di un ordine sociale competitivo, al quale all'ex-schiavo fu sistematicamente impedito di partecipare a fronte della precarietà del processo di reinserimento nella società a cui fu sottoposto. Implicitamente impedito nella possibilità di trovare una identità di classe, il nero fu portato a condurre un'esistenza ambigua ai margini della società, senza le condizioni per potersi integrare nel nuovo sistema. In una celebre frase di Celso Furtado, “il nero fu liberato per l'ozio”.Per questa ragione, Suely Carneiro considera una delle cose più crudeli e perverse tracciare un parallelismo fra la situazione dello schiavo e quella dell'immigrante. Sono situazioni drammaticamente differenti l'immigrazione e la riduzione in schiavitù. Nel primo caso, uno può lasciarsi dietro parenti, amori e amici, condizioni sociali avverse, guerre, povertà, discriminazioni e persecuzioni. Ma gli resta qualcosa: l'umanità, che la condizione di schiavo liquida e tenta di annichilire completamente. In quest'ultimo caso, di fronte alla cattura, allo sradicamento, all’acculturazione e alla perdita della condizione umana, la sopravvivenza, il riscatto di un'identità socioculturale e la ricostruzione della struttura psicologica rappresentano praticamente un “miracolo sociologico”. Intendiamoci: nessuno vuol negare la sofferenza di Giuliana e Matteo, della telenovela “Terra Nostra”. Ma, come rammenta Edson Lopes Cardoso, essi almeno hanno avuto il tempo di fare le valigie. Ciò senza voler parlare del fatto che innumerevoli immigranti hanno goduto di facilitazioni da parte dello Stato brasiliano per stabilirvisi, a totale scapito della popolazione nera, non tutelata, abbandonata alla propria sorte. E' opportuno ricordare che per la colonizzazione della Vale dos Sinos, nel Rio Grande do Sul, i tedeschi non soltanto ricevettero terre ed incentivi dallo Stato: lo stesso decreto che istituiva i loro diritti di colonizzazione semplicemente proibiva la presenza nera nella regione. (E' impressionante, sebbene non sorprenda poi molto, come i corsi, nelle università, sull'immigrazione italiana tendano, frequentemente, a passare sotto silenzio questo aspetto). 

 
UNA NERA ALL'ALTEZZA DI UN BIANCO

La lotta contro la discriminazione razziale in Brasile inizia già nel periodo coloniale, con la resistenza dell'africano e dell'indio di fronte alla violenza del progetto coloniale portoghese. Da allora ad oggi, le battaglie contro l'oppressione razziale hanno assunto forme diverse.Oggi, da una parte, tale impegno si rivolge alla rivendicazione di politiche pubbliche che contrastino la discriminazione razziale, come, ad esempio, l'adozione di quote, la cui proposta è stata immediatamente accompagnata dal coro: “Stanno importando il razzismo e i modelli degli Stati Uniti!”. Se ciò fosse vero, il movimento nero non starebbe facendo nulla di radicalmente diverso da ciò che fa una società come la nostra, sempre più coinvolta in un processo di macdonaldizzazione. Del resto, la “azione affermativa”, è importante ricordare, non è necessariamente un'invenzione nordamericana e, oltretutto, neppure tutto quello che proviene dagli USA deve essere per forza negativo.D'altra parte, tale lotta si dispiega anche in una miriade di azioni comunitarie, nei più svariati ambiti, prevalentemente quello della scuola e quello del consolidamento di una posizione critica in rapporto ai midia, che continuano ad essere validissimi spazi di riproduzione e diffusione del razzismo nel paese. A questo proposito si può portare ad esempio una pubblicità di un nuovo caffè solubile, lanciata alcuni mesi fa da una azienda di latticini italiana in Brasile. Accanto alla foto di un bel fotomodello bianco (nordico), abbracciato da una nera ugualmente bella, appaiono le seguenti diciture: “E' arrivato il caffè Parmalat. Il caffè all'altezza del nostro latte.”Occorre dire altro? Resta solo da aggiungere che la situazione della donna nera nel paese è di estrema subordinazione. Le statistiche ufficiali dànno conto dell'ampia diversificazione nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro, una volta che esse cominciano a conquistare spazi tradizionalmente maschili. Quantunque, se incrociamo la variabile del genere con quella del colore, vedremo subito che le donne nere continuano ad essere confinate nelle attività domestiche, nel cui ambito, come ben illustrato (e applaudito) nelle nostre telenovele, esse si prodigano, felici di servire al meglio possibile le famiglie bianche. Per quanto attiene al salario (formidabile indice di valorizzazione di ogniuno in una società), il DIEESE (Dipartimento Intersindacale di Statistica e Studi Socioeconomici) conferma: in Brasile, due nere e mezza equivalgono a un uomo bianco. La gerarchia è così stabilita: in cima l'uomo bianco, seguito della donna bianca, dopo la quale viene l'uomo nero e, solo alla fine, la donna nera. La “mulata” della Parmalat, come il messaggio dice chiaramente, è un'eccezione.Bisogna anche notare che la ascesa sociale di un nero in Brasile non gli garantisce l'immunità dal razzismo e dalla discriminazione. Egli può anche lasciarsi dietro le carenze materiali, ma non si libererà dalle insidie della “democrazia razziale” brasiliana o della “neodemocrazia razziale”, come dice Suely Carneiro: in questo caso, il nero integrato è inquadrato solamente nella sua dimensione di consumatore, ma non in quella di cittadino. Il mercato, questo vitello d'oro, finisce, così, per definire il progetto di inclusione del nero. Una inclusione subordinata e minoritaria (Carneiro, 2000a: 28).Per finire, è quasi obbligatorio accennare a Jane Elliot, una splendida e coraggiosa insegnante nordamericana che concepì un'esercizio (“Blue Eyed”) che usò inizialmente per spiegare ai propri giovani alunni il perché è stato ucciso Martin Luther King. Nonostante le rappresaglie cui dovete far fronte durante tutta la sua vita per questo, ella mai desistette o perse un'opportunità di sottolineare che l'omissione delle “brave persone” sta rendendo possibile l'estrema violenza del razzismo. Mi ricordo di lei, davanti a una platea, che chiede ai bianchi presenti di alzarsi in piedi nel caso desiderassero essere trattati come i neri normalmente lo sono. Poiché, ovviamente, nessuno si alzò, Elliot concluse: “Se non vi siete alzati è perché sapete ciò che sta accadendo e non lo desiderate per voi. Il problema, allora, è sapere per quale ragione permettete che ciò continui ad accadere agli altri”.  


Riferimenti bibliografici: 

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D’INCAO, Maria Ângela (org.). O saber militante. São Paulo: Paz e Terra, 1987.
______ Gilberto Freyre e o mito da cultura brasileira. Humanidades, 15, 1987/1988.
CARDOSO, Edson Lopes. Bruxas, espíritos e outros bichos. Belo Horizonte: Mazza Edições, 1992. 
CARNEIRO, Suely, “Terra Nostra” só para os italianos. Folha de S. Paulo, 27.12.1999.
______ Uma guerreira contra o racismo. Caros Amigos. Fevereiro, 2000a.
______ Racismo na educação infantil. Correio Braziliense, 10.11.2000. 
COSTA, Emília Viotti da. Da monarquia à república. 7. ed., São Paulo: Unesp, 1999. 
FERNANDES, Florestan.A integração do negro na sociedade de classes. 3. ed., São Paulo: Ática, 1978, 2 vols.
______ O negro e a democracia. Humanidades, 14, 1987.
FREYRE, Gilberto. Casa-grande & senzala. 39. ed., Rio de Janeiro: Record, 2000. (Padroni e Schiavi. Torino: Einaudi, 1965).
______ Novo mundo nos trópicos. São Paulo: Editora Nacional, EDUSP, 1971. 
FURTADO, Celso, Formação econômica do Brasil. 27 ed., São Paulo: Nacional, 1998. 
INSTITUTO INTERSINDICAL INTERAMERICANO PELA IGUALDADE RACIAL. Mapa da população negra no mercado de trabalho, São Paulo: INSPIR/DIEESE, 1999.
RIBEIRO, Darcy.O povo brasileiro. 2. ed., 17. reimpr., São Paulo: Companhia das Letras, 2000. 
SCHWARZ, Roberto, Que horas são? São Paulo: Companhia das Letras, 1987. 
SILVA, Maria Rosa Nogueira e, “Negro na rua”. São Paulo: Hucitec,1988.

L'autore è docente di Sociologia all'UniCEUB (Centro Universitario di Brasilia) e all'IESB (Istituto di Educazione Superiore di Brasilia).

 

 



(em portugues)

A violência da democracia racial brasileira

 

por Rogério Diniz Junqueira

 

“Um negro parado é suspeito, correndo é culpado.”(Inscrição gravada na parede da Escola da Polícia de São Paulo, antes da Constituição de 1988). 

 
A “democracia racial brasileira” é um mito ainda vivo e insidioso. Em um país que gosta de se imaginar uma nação sem racismo, o tardio reconhecimento por parte do Estado da existência desse problema ainda não se fez acompanhar de políticas públicas de efetivo alcance social para combatê-lo. Recentemente, ninguém menos que o chefe supremo da nação, em um discurso supostamente contra o racismo, afirmou também possuir sangue africano nas veias. “Tenho o pé na cozinha”, declarou o presidente, deixando claro para todos qual é o “lugar do negro” nesta sociedade. Com efeito, como observa Darcy Ribeiro, aqui, a luta mais árdua dos negros brasileiros é a pela conquista de um lugar e de um papel de participante legítimo na sociedade nacional. Até então, ele será chamado de “negrinho arrogante” caso não cumpra seu papel de acordo com as expectativas tradicionais de humildade e subserviência, reservadas sobretudo aos negros em relação aos brancos.  


RAÇA E ETNIA

 Nunca foi fácil falar de racismo e de discriminação racial. No Brasil como em qualquer parte do mundo. Sobre este tema as controvérsias acadêmicas nunca foram pequenas. Basta simplesmente lembrar os debates acerca da impropriedade do termo “raça” e das limitações do termo “etnia”. “Raça” e “etnia” não são “dados de fato”, mas conceitos muito problemáticos.Não raro, define-se “etnia” com base lingüística, ou seja, fazendo coincidir as fronteiras da “etnia” com as da “língua”. Assim, um defensor do panturquismo pode definir, sem titubear, como “turco” até mesmo um esquimó do nordeste siberiano, já que este último se exprime em uma língua turcófona. Com base neste critério, no Brasil, onde é praticamente universal o uso do português na sua vertente brasileira, seríamos quase todos da mesma etnia, impossibilitando uma tematização da discriminação étnica no país. É por essas e outras razões que, perfeitamente ciente dos problemas aí implicados, o movimento negro brasileiro (sem querer passar uma idéia que seja um grupo único e que não conheça enormes controvérsias no seu interior) tem, no mais das vezes, preferido adotar o conceito de “raça”. Estes ativistas estão cientes que “raça” não é uma realidade biológica, mas um conceito político, cuja aplicação social revelou-se um formidável instrumento de desumanização e de promoção de privilégios e desigualdades.  


RACISMO INEXISTENTE E ANTI-RACISMO ALIENIGENA

 Quem dera as dificuldades fossem apenas acadêmicas! Poderíamos dormir mais tranqüilos. As maiores dificuldades que se erguem quando se clama contra a opressão racial são de ordem cultural, ideológica e, portanto, sobretudo política. No Brasil, os diversos regimes autoritários sempre tiveram caprichosamente o cuidado de reprimir os que ousavam problematizar as ideologias racistas aqui adotadas ou lutar contra os mecanismos e as práticas de discriminação racial. O movimento negro foi recebido com suspeitas e acusado, entre outras coisas, de valer-se de “ideologias exóticas” ou “alienígenas” por meio das quais inventavam “um problema racial inexistente” ou, mais prosaicamente, de querer “criar antagonismos e ódios entre irmãos”. Contra esse terrível perigo o Estado sempre soube se valer de sua autoridade e energia. Mesmo em período de democracia.Impossível esquecer a emblemática repressão desencadeada, no Rio de Janeiro, durante a comemoração oficial (portanto, branca) do centenário da abolição da escravidão, em maio de 1988, já no período pós-ditadura (Cardoso, 1992: 30-37). Naquela ocasião, entidades da sociedade civil organizaram inúmeras atividades e manifestações em todo o país. No dia 11 de maio, no Rio de Janeiro, organizou-se uma passeata, devidamente autorizada, contra o racismo e em homenagem a Zumbi de Palmares, líder do principal e mais famoso “quilombo” (termo de origem afro usado para designar as comunidades solidárias onde viviam sobretudo escravos fugitivos). É preciso lembrar que o movimento negro no Brasil comemora o “20 de Novembro”, aniversário da morte de Zumbi e não o “13 de Maio”, aniversário da assinatura da “Lei Áurea”, pela princesa Isabel, que, na versão oficial, concedeu a liberdade aos negros. Zumbi representa a resistência negra; Isabel, a “redentora”, por sua vez, representa a bondade branca.Àquela ocasião, o Comando Militar do Leste do Exército divulgou uma nota oficial explicando que teve que ocupar as ruas do centro carioca em face da “intenção descabida de ativistas em utilizarem-se das comemorações do Centenário para tumultuar a tranqüilidade da Cidade do Rio de Janeiro”. E mais: tinha-se que impedir que, “no bojo de pretensas passeatas”, com “objetivos bem conhecidos e até inconfessáveis”, tentassem, “de maneira grosseira, mudar fatos reais”, sem que estivessem “escudados em qualquer dado histórico-científico e sim apenas em meias verdades e omissões, divulgando para o povo deturpações com propósitos impatrióticos de criar antagonismos...” ecc.. O de sempre.Em poucas palavras: para a nossa velha direita, apontar o dedo contra o racismo seria ameaçar a segurança nacional, valer-se de “ideologias alienígenas”, em um país marcado pelo “convívio harmonioso entre as classes”. Parafraseando Roberto Schwarz, podemos dizer que aqueles que no Brasil acusam o anti-racismo de “ideologia alienígena” talvez acreditem que o fascismo seja invenção brasileira.Por outro lado, colocar o anti-racismo nas agendas das esquerdas não foi muito mais fácil, sendo que se tenha, ainda hoje, conseguido conferir devida centralidade à luta contra a opressão racial no país. Durante o período de resistência à ditadura militar, as forças que lutavam pela implantação de um regime democrático não raro apresentavam enorme desconforto diante da problematização contra o racismo e a discriminação racial. A esquerda tinha enormes dificuldades para lidar com a questão. Para que tanta preocupação com a discussão sobre o racismo ou outras discriminações? Isso seria típico do capitalismo. Com a revolução, uma vez debelados os problemas “objetivos”, os problemas “subjetivos” ruiriam feito um castelo de cartas, automaticamente. Além do mais, diziam outros, não existe racismo no Brasil, mas sim a desigualdade econômica. Os negros estariam sendo discriminados porque pobres. Por que será, então, essa estranha obstinação desses negros em quererem manter-se pobres?Devemos muito à incansável atuação dos inúmeros ativistas negros, como Abdias do Nascimento, Edson Lopes Cardoso, Suely Carneiro e tantos outros para colocar na agenda das esquerdas a batalha contra o racismo no Brasil. O sociólogo Florestan Fernandes, o principal representante do grupo de intelectuais responsáveis pela desmistificação da democracia racial brasileira, foi uma figura central no processo ao procurar fazer as esquerdas brasileiras entenderem que lutar contra as diversas formas de opressão racial no país seria a forma mais eficaz de combate contra os mecanismos mais perversos do capitalismo brasileiro. Racismo e discriminação são produtores eficazes de privilégios para o grupo racial dominante, com forte impacto na estrutura social como um todo. Destarte, a “democracia só será uma realidade quando houver, de fato, igualdade racial no Brasil e o negro não sofrer nenhuma espécie de discriminação, de preconceito, de estigmatização e de segregação, seja em termos de classe, seja em termos de raça” (Fernandes, 1987: 71).  


DEMOCRACIA RACIAL E O LUGAR DO NEGRO

 O mito da democracia racial no Brasil está assentado na suposta inexistência de mecanismos jurídicos de segregação e na afirmação de que não se levantaram barreiras à ascensão social do negro, dada a “ausência de preconceito e de discriminação”.O sociólogo Gilberto Freyre, embora reconhecesse a existência de um certo preconceito racial no país, foi o principal articulador desse mito, argumentando que, aqui, a distância social entre brancos e negros era resultado de diferenças de classe, antes que principal fruto de preconceitos de cor ou raça. Segundo o autor de “Casa-Grande & Senzala” (publicado em 1933), a marca do povo brasileiro é a sua “duplicidade e alma”, a qual lhe confere uma especial capacidade para suportar contradições e harmonizá-las. Assim, no Brasil, tradicionalmente, a busca de soluções dos conflitos se faria por meio da integração ou do equilíbrio de elementos antagônicos. O brasileiro, figura transigente, saberia conciliar oposições. Daí, “nossa relativa democracia étnica: ampla, embora não perfeita, oportunidade dada a todos os homens, independentemente de raça ou de cor, para se afirmarem brasileiros plenos” (Freire, 1971: 4-5).Freyre, distinguindo-se dos seus colegas que continuavam ancorados nas teorias racistas européias (Gobineau, Lapouge e outros), via como positiva a presença do africano na sociedade brasileira: o negro foi um agente da colonização e cumpriu importante papel civilizador. Freyre foi, por isso, alvo de duras críticas à época. Graças a ele, verificou-se uma transição nas abordagens sobre a questão racial: o debate ganhou novos contornos à medida que incorporou o discurso culturalista do antropólogo Franz Boas, que relativizava a importância da “raça” para a compreensão dos grupos humanos e destacava a relevância do ambiente, da história e da cultura.Mas, vejamos, se não há obstáculos, por que o negro não ascendeu? Malgrado as intenções de Freyre, o discurso acerca da democracia racial, fundado na igualdade formal acabou por aprofundar a visão baseada nas principais suposições das teorias racistas européias acerca da inferioridade natural do negro. Enquanto haveria, de um lado, igualdade de direitos e de oportunidades para todos, de outro, os afro-descedentes seguem vivendo dez anos a menos do que os brancos, ganham quase a metade que os brancos, são a maioria dos desempregados, dos pobres, dos indigentes, dos analfabetos e de toda a horda dos deserdados. Então, isso seria de se atribuir, fatalmente, à sua intrínseca inferioridade. E mais: não havendo racismo, não há contra o que se protestar a este respeito. “Nós não somos racistas, os negros conhecem o seu lugar”.Aqui, a pobreza negra está tão “naturalizada” no terreno das representações sociais que, quando um negro é visto “fora de seu lugar”, por exemplo, ao volante de um carro de luxo, costuma suscitar as suspeitas da polícia ou, no melhor dos casos, vira alvo de comentários dos passantes: “Deve ser o motorista, cantor de pagode ou jogador de futebol”.Conforme alerta Emília Viotti da Costa, para se entender as complexas percepções dos padrões raciais é preciso olhar além dos limitados quadros de referência das relações raciais. Costuma-se dizer no Brasil que, se não se tem uma compreensão histórica, tem-se uma compreensão histérica. De fato, a compreensão da situação do negro na sociedade brasileira atual não poderia ser descolada de uma reflexão acerca da ordem escravocrata e senhorial que, no entanto, fazer-nos-ia extrapolar os limites deste artigo. Para tanto, é indispensável remeter o nosso leitor às obras de Florestan Fernandes, Darcy Ribeiro, Sérgio Buarque de Holanda, Antonio Candido, Celso Furtado, Thales de Azevedo, Caio Prado Junior, José Murilo de Carvalho, João Ribeiro Fragoso, além dos que já foram citados anteriormente. Uma lista que continuaria, quase sem fim. Um antídoto ao histerismo racista, que atribui ao negro toda a culpa pelas suas mazelas, explicadas como “características próprias de sua raça” (como a preguiça, a ignorância, a criminalidade, todas elas inatas e inelutáveis) e não como resultado da escravidão, de uma abolição incompleta e da contínua opressão.A estreita vinculação entre a “condição social de escravo” e a condição de “cor”, que vinha se definindo a partir das “Grandes Navegações”, encontrou no continente americano meios para sua plena consolidação. Já no início da ocupação colonial do Brasil, superada a breve fase do escambo, foi imposto o regime de exploração de trabalho escravo ao índio e ao africano. Foi então, gradativa e aceleradamente, constituída a mais longeva e poderosa organização escravista das Américas. Nesse cenário, conforme nos ensinou Florestan Fernandes, as relações e estruturas sociais que constituíram a ordem social escravocrata implicavam as mais diversas formas de discriminação racial e operavam no sentido de manter a posição e as relações existentes entre as “raças” dos senhores e aquelas dos escravos. Ao negro era proibido o acesso a papéis sociais que pressupunham prerrogativas que lhes eram vedadas pela “condição social” e pela “cor”. As elites, contudo, aprenderam a abrir exceções para alguns indivíduos negros ou “mulatos”.No século XIX, nos últimos anos da escravatura, eram oferecidas poucas alternativas de inserção ao negro que se libertava legalmente do jugo escravista. Como mostra Maria Rosa Nogueira e Silva, o negro livre não tinha lugar na sociedade. Abandonado à própria sorte, alternava mendicância e trabalho temporário (com uma precariedade de fazer inveja aos mais afoitos adeptos da flexibilização neoliberal). Não raro, o ex-escravo tinha que recorrer a roubos, agressões, assaltos, fugas e bebedeiras, já que no mundo dos senhores não havia mecanismos para atender às suas necessidades e anseios. Quando conseguia trabalho, era mal pago e identificado com a escravidão.Com o colapso do regime escravista, a abolição (1888) e a proclamação da República (1889), estabeleceram-se as condições preliminares da tese da “harmonia das raças, da paz social entre negros e brancos e da cordialidade do brasileiro”. Ocorreu então a reinterpretação do jugo escravista no Brasil: “Em nenhum outro lugar a nefanda instituição apresentou traços tão suave, doce e cristãmente humano”. Com a revogação do estatuto servil, “o negro não tem mais problemas”, pois “as oportunidades de acumulação de riqueza, conquista de prestígio social e poder estão abertos a todos”. Claro. O Brasil vai dormir escravista e acorda uma democracia racial. No ano seguinte é composto o Hino à República, que à certa altura diz: “Nós nem cremos que escravos outrora/Tenha havido em tão nobre país...” Varremos para debaixo do tapete a maior mancha de nossa história. E se isso é coisa de “outrora” não são lícitos pedidos de reparação.  


“BRANQUEAMENTO” SOCIAL, “BRANQUEAMENTO” BIOLOGICO E “TERRA NOSTRA”

 Nunca houve no país ideologias segregacionistas tais como as dos EUA, onde impera um “preconceito de origem”, segundo o qual qualquer descendente de uma união entre um negro e um branco é considerado negro. Aqui, onde qualquer pessoa que não seja obviamente negra pode ser considerada branca, prevalece um “preconceito de cor”: uma pessoa é branca ou negra segundo sua aparência. E não só: alguém pode deixar de ser negro à medida que passe por um processo de “branqueamento” social e cultural.No Brasil, a partir do fim do século XIX, as idéias racistas européias sofreram uma retradução, no bojo da qual foram excluídas duas de suas principais suposições: a natureza inata das diferenças raciais e a degeneração dos sangues mestiços. Embora as elites brasileiras afirmassem constantemente sua fé na superioridade dos brancos, elas tinham meios para aceitar negros em suas fileiras.Historicamente, a gradativa absorção do negro dava-se por um processo de seleção e assimilação dos que se mostrassem mais identificados com os círculos dirigentes da “raça dominante” e os que ostentassem total lealdade a seus interesses e valores sociais. As elites brancas podiam aceitar em suas camadas um negro mestiço de pele mais clara (o “mulato”), que adquiria assim o status de branco. A assimilação se dava à medida que os negros que ocupavam uma posição superior passavam a se identificar a si mesmos como integrantes da comunidade branca. Para sair do lugar que a sociedade inicialmente lhe designou, o negro tem que “embranquecer”, renunciar à sua identidade e à sua comunidade. Um “branqueamento” social que produziu o “preto de alma branca”. A este propósito, Darcy Ribeiro lembra a resposta comovida do pintor negro Santa Rosa a um jovem negro que se lamentava das dificuldades postas às “pessoas de cor” na carreira diplomática: “Compreendo perfeitamente o seu caso, meu caro. Eu também já fui negro”.As elites ainda elaboraram uma visão que os “mulatos” estariam, biológica e evolutivamente falando, a meio caminho entre os negros e os brancos. A mestiçagem era louvada e não criminalizada, posto que vista como possibilidade de resgate da “qualidade da raça”. E mais: o sangue bom e forte, o sangue branco, prevaleceria e o país, no arco de algumas décadas estaria inteiramente branco.O então diretor do Museu Nacional do Rio de Janeiro, o cientista João Batista Lacerda, ao participar do I Congresso Internacional das Raças, realizado em 1911, apresentou a tese que era “lógico supor que, na entrada do novo século, os mestiços terão desaparecido no Brasil, fato que coincidirá com a extinção paralela da raça negra entre nós”. Um “branqueamento” biológico, eugênico. Neste sentido convergia o incentivo à imigração européia ao país: embranquecê-lo, elevar a qualidade do patrimônio genético nacional.À medida que o regime escravista dava sinais de estar prestes a colapsar-se e se aprofundavam as transformações sócio-econômicas sobretudo na regiões centro-sul do país, as classes dominantes reestruturaram eficazmente seu sistema de recrutamento de força de trabalho,substituindo a mão de obra escrava por imigrantes sobretudo da Europa. Viu-se então surgir o imigrante europeu como agente natural do trabalho livre, como esperança de progresso e de “branqueamento” da nação. O imigrante não viria simplesmente para ocupar o lugar do escravo, mas sim um lugar novo em uma nova estrutura de trabalho, própria da ordem social competitiva, da qual o ex-escravo foi sistematicamente impedido de participar em face da precariedade do processo de ressocialização ao qual foi submetido. Tolhido inclusive da possibilidade de encontrar uma identidade de classe, o negro foi conduzido a uma existência ambígua à margem da sociedade, sem condições de integrar-se ao novo sistema. Na célebre frase de Celso Furtado, “o negro foi liberto para o ócio”.Por essa razão, Suely Carneiro considera uma das coisas mais cruéis e perversas traçar um simples paralelo entre a situação do escravo com a do imigrante. São situações dramaticamente diferentes a imigração e a redução à escravidão. No primeiro caso, alguém pode estar deixando para trás parentes, amores e amigos, condições sociais adversas, guerras, pobreza, discriminações e perseguições. Mas lhe resta algo: a humanidade, que a condição de escravo liquida e tenta aniquilar completamente. Neste último caso, diante do apresamento, do desenraizamento, da aculturação e da perda da condição humana, a sobrevivência, o resgate de uma identidade sócio-cultural e a reconstrução da estrutura psicológica representam praticamente um “milagre sociológico”. Entendamo-nos: ninguém está desfazendo do sofrimento de Giuliana e Matteo, de “Terra Nostra”. Mas, como lembra Edson Lopes Cardoso, eles ao menos tiveram tempo de fazerem suas malas. Isso sem falar que inúmeros imigrantes encontraram facilitações por parte do Estado brasileiro para aqui se instalarem, em total detrimento da população negra, desamparada, deixada à sua própria sorte. Vale lembrar que para a colonização do Vale dos Sinos, no Rio Grande do Sul, os alemães não apenas contaram com terras e recursos concedidos pelo Estado: o mesmo decreto que lhes instituía os direitos de colonização simplesmente proibia a presença negra na região. (É impressionante, muito embora não surpreenda por demais, como os cursos nas universidades sobre imigração italiana tendam, com freqüência, a silenciar-se sobre isto).  


UMA NEGRA A' ALTURA DE UM BRANCO

 A luta contra a discriminação racial no Brasil começa ainda no período colonial, com a resistência do africano e do índio diante da violência do projeto colonial português. De lá para cá, os combates contra a opressão racial têm assumido diversas conformações.Hoje, de um lado, tal empenho volta-se a reivindicações de políticas públicas de combate à discriminação racial, como a adoção de cotas, cuja proposição se faz imediatamente acompanhar do coro: “Estão importando o racismo e os modelos dos Estados Unidos!”. Se isso fosse verdadeiro, o movimento negro não estaria fazendo nada que fosse radicalmente diferente do que faz uma sociedade, como a nossa, cada vez mais envolvida em um processo de macdonaldização. De resto, a “ação afirmativa”, é importante lembrar, não é necessariamente uma invenção norte-americana e, além do mais, nem tudo que provém dos EUA deve ser necessariamente ruim.De outro, tal luta se desdobra também em uma miríade de trabalhos comunitários, nos mais variados campos, marcadamente o da escola e o da consolidação de uma postura crítica em relação aos meios de comunicação, que continuam sendo formidáveis espaços de reprodução e ampliação do racismo no país. Por falar nisso, vale mencionar uma publicidade de um novo café solúvel, lançado há alguns meses por uma empresa de laticínios italiana no Brasil. Ao lado de uma foto de um belo modelo branco (nórdico), que aparece abraçado por uma negra igualmente bela, surgem os seguintes dizeres: “Chegou o Café Parmalat. O café à altura de nosso leite.” É preciso dizer algo mais? Acrescente-se apenas que a situação da mulher negra no país é a da mais extrema subalternização. As estatísticas oficiais dão-nos conta da ampla diversificação na participação das mulheres no mercado de trabalho, uma vez que elas começam a conquistar espaços tradicionalmente masculinos. Contudo, se cruzarmos as variáveis de gênero à de cor, veremos logo que as mulheres negras continuam confinadas no emprego doméstico, de onde, como tão bem ilustram (e encarecem) as nossas telenovelas, elas se desdobram, felizes em servir o melhor possível às famílias brancas. No que se refere a salários (formidável índice de valorização de alguém em uma sociedade), o DIEESE (Departamento Intersindical de Estatísticas e de Estudos Sócio-Econômicos) confirma: no Brasil, duas negras e meia equivalem a um homem branco. A hierarquia fica então estabelecida: no topo o homem branco, seguido pela mulher branca, depois vem o homem negro e só, por fim, a mulher negra. A “mulata” da Parmalat, como os dizeres deixam claro, é uma exceção.Vale ainda ressaltar que a ascensão social de um negro no Brasil não lhe garante uma imunidade ao racismo e à discriminação. Ele pode até deixar de sofrer carências materiais, mas não se livrará das insídias da “democracia racial” brasileira ou da “neodemocracia racial”, como diz Suely Carneiro: neste caso, o negro incluído é somente encarado na sua dimensão de consumidor, mas não na de cidadão. O mercado, esse bezerro de ouro, acaba, assim, por definir o projeto de inclusão do negro. Uma inclusão subordinada e minoritária (Carneiro, 2000a: 28).Para terminar, é quase obrigatório falar de Jane Elliot, uma esplêndida e corajosa professora norte-americana que concebeu um exercício (“Blue Eyed”) que usou inicialmente para explicar aos seus jovens alunos por que haviam matado Martin Luther King. Apesar das retaliações que teve de enfrentar durante toda a sua vida por isso, ela nunca desistiu ou perdeu a oportunidade de sublinhar que a omissão das “pessoas boas” tem tornado possível a extrema violência do racismo. Lembro dela, diante de uma platéia, pedindo aos brancos presentes que ficassem de pé caso desejassem ser tratados como os negros normalmente são. Como, obviamente, ninguém se levantou, Elliott concluiu: “Se não se levantaram é porque sabem o que está acontecendo e não o desejam para si. O problema, então, é saber por qual razão permitem que isso continue acontecendo com os outros.”  

O autor è professor de Sociologia ao UniCEUB  e IESB de Brasilia.


Referências bibliográficas:

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