Martedi grasso

di Caio Fernando Abreu

(tratto da: “Morangos Mofados”, 1982)

 traduzione di Bruno Persico 

Dun tratto cominciò a ballare elegante e leggiadro, avanzando verso di me. Mi guardò fisso negli occhi, una ruga tesa tra le sopracciglia e un accenno di sorriso per chiedere il mio assenso. Feci un cenno col capo, anch’io quasi sorridendo, la bocca impiastrata di tanta birra tiepida, vodka con coca-cola, whisky nazionale, gusti che neanch’io riuscivo a distinguere dai tanti bicchieri di plastica passati di mano in mano. Portava un tanga bianco e rosso, Xangô, pensai, Iansã, brillantini sul volto, Oxalá, braccia per aria, Ogum di umbanda, e il suo ballare elegante.

Un movimento che partendo dai fianchi e passando per le cosce scendeva giù fino ai piedi, quindi lo sguardo si abbassava e il movimento saliva poi di nuovo attraverso la cintura, fino a giungere alle spalle. Prese a scuotere la testa, ogni volta più vicino. Ero sudato fradicio. Tutti erano sudati, ma io non vedevo nessun altro all’infuori di lui. Lo avevo già visto, non lì, ma tempo fa, non sapevo più dove. Avevo girato talmente tanti posti. Anche lui aveva l’aria di chi di posti ne avesse girati molti. Chissá, forse in uno di quei posti. Qui o là. Ma non ce ne saremmo ricordati cosí, senza parlare. Il fatto è che parole non ce n’erano. C’era solo il movimento, il sudore, il mio e il suo corpo che si avvicinavano e non chiedevano nient’altro che quell’avanzare sempre più vicino. Quando mi fu di fronte ci fissammo negli occhi.

Adesso ballavo anch’io, accompagnando il suo movimento, cosí, fianchi, cosce, piedi, sguardo verso il basso, far risalire il movimento fin sulle spalle attraverso la cintura, poi scuotere i capelli bagnati, alzare il capo e guardarsi in viso sorridendo. Accostò il suo tronco sudato al mio. Avevamo molti peli, noi due. I nostri peli fradici si strofinavano.  Lui tese la mano aperta e la passó sul mio viso. Disse qualcosa. Come?, domandai. Mi piaci, disse. Non sembrava frocio, proprio no: solo un corpo, per caso di un uomo, invaghito di un altro corpo, il mio, per caso di uomo anche lui. Io tesi la mano aperta, la passai sul suo viso, dissi qualcosa. Come?, domandò. Mi piaci, dissi. Ero solo un corpo, per caso di un uomo, invaghito di un altro corpo, per caso di uomo anche lui. Desideravo quel corpo di uomo che ballava sudato ed elegante, lì, di fronte a me.

Ti voglio, lui disse, io dissi ti voglio anch’io. Ma ti voglio adesso, in questo istante, disse, ed io ripetei anch’io, anch’io ti voglio adesso. Il suo sorriso si fece più largo rivelando i denti chiari. Passò la mano sul mio stomaco. Passai la mano sul suo stomaco. Si strinse a me, ci stringemmo. Le nostre carni dure avevano peli in superficie e muscoli sotto la pelle. Ahi!, ahi!, disse qualcuno in falsetto, e schizzò via. Intorno ci guardavano tutti. La sua bocca socchiusa si stava avvicinando alla mia. Pareva un fico maturo quando lo si incide con la punta del coltello all’estremità più rotonda e gli si sguscia la polpa, lentamente, ed appare l’interno rosato.

Lo sapevi, dissi, che il fico non è un frutto, ma un fiore che sboccia di dentro. Come?, urlò. Il fico, ripetei, ma non aveva importanza. Si infilò la mano nell’inguine e trasse due pastiglie in una bustina metallica. Ne prese una e mi porse l’altra. No, dissi, voglio restare lucido, a qualsiasi costo. Ma ero completamente partito. Dio sa come avrei voluto quella pallina calda venuta da mezzo i suoi peli. Tirai fuori la lingua, ingoiai. La gente intorno ci urtava di continuo, cosí tentai di proteggerlo col mio corpo, ma, ahi! ahi!, ripetevano urtandoci, froci! Andiamocene via, lui disse.

Uscimmo colando sudore da mezzo il salone, i brillantini sul suo volto scintillavano in mezzo alle grida. Froci!, si sentiva ancora, e già i nostri visi erano colpiti dalla fredda brezza marina. La musica era un interminabile tum-tum-tum di piedi e tamburi battenti. Mirai verso il cielo e guarda! gli indicai le Pleiadi, solo quanto riuscivo a vedere, la forma di una racchetta da tennis. Ti prenderai un raffreddore, disse, la sua mano intorno alle mie spalle. Forse fu lì che mi accorsi che non stavamo portando maschere.

 Ricordai di aver letto da qualche parte che il dolore è l’unica emozione che non usa maschere. Non era dolore, il nostro, ma quello che stavamo sentendo in quel momento, non so neppure se fosse allegria, neanch’esso usava maschere. Allora pensai lentamente che era proibito o pericoloso non usare maschere. La sua mano mi strinse la spalla. La mia gli afferrò la cintura. Seduto sulla sabbia, dall’inguine magico tirò fuori un pezzetto di carta, uno specchio rotondo, una lametta da barba. Batté quattro strisce, ne sniffó due, e mi porse il bigletto da mille arrotolato. Inspirai a fondo, una in ogni narice. Leccó il vetro, bagnai le gengive. Butta lo specchio a Iemanjá, mi disse. Lo specchio brillò roteando nell’aria, e mentre accompagnavo il suo volo con lo sguardo ebbi il terrore di ritornare a guardarlo in viso. Perché se si chiudono gli occhi, quando li si riapre ciò che è bello diventa brutto. E viceversa.

 Guardami, ordinó. Lo guardai. Stavamo brillando, noi due, mentre ci guardavamo sulla sabbia. Ti ho già visto da qualche parte amico, disse, ma forse è un’impressione della mente. Non ha importanza, dissi. Non dir niente, fece lui, poi mi abbracciò forte. Guardai il suo viso da vicino, visto così non era né bello né brutto: solo pori e peli, un volto-verità che guardava da vicino un volto-verità, il mio. La sua lingua mi lisció il collo, la mia penetrò nel suo orecchio, poi ambedue si impastarono bagnate. Come due fichi maturi schiacciati l’uno contro l’altro, i semi rossastri che schioccavano in un rumore di denti contro denti. Ci levammo i vestiti, poi rotolammo nella sabbia. Non ti chiederò il nome, né l’età, il telefono, il segno, l’indirizzo, disse. Il suo petto nella mia bocca, la punta dura del mio pene nella sua mano. Se anche mentirai ti crederò, risposi, come si canta nelle vecchie marcette di carnevale.

Rotolammo fino al punto in cui le onde si frangevano, per far si che l’acqua lavasse e levasse il sudore e la sabbia dai nostri corpi. Ci stringemmo l’uno contro l’altro. Volevamo restare stretti così perché ci completavamo in quel modo, il corpo di uno la metà perduta del corpo dell’altro. Era così semplice. Ci distaccammo un poco solo per vedere meglio come erano belli i nostri corpi nudi di uomini distesi l’uno accanto all’altro, illuminati dalla fosforescenza delle onde del mare. Il plancton, disse, è un animaletto che brilla quando fa l’amore. E brillammo. Ma vennero verso di noi, ed erano in molti. Scappa!, gridai tendendo il braccio. La mia mano afferrò uno spazio vuoto. Un calcio alla schiena mi fece balzare in piedi. Lui rimase a terra.

 Gli stavano tutti intorno. Guardando in basso, vidi i suoi occhi spalancati e senza colpa alcuna in mezzo agli altri visi. La sua bocca madida affondò in una massa oscura. Avrei voluto prendergli la mano, proteggerlo col mio corpo, ma senza volerlo mi ritrovai da solo a correre sulla sabbia bagnata, e quelli tutti intorno, molto vicini. Chiudendo gli occhi, come in un film, riuscivo a vedere tre immagini sovrapposte. La prima il suo corpo sudato, che ballava e veniva verso di me. Poi le Pleiadi, a forma di racchetta da tennis, nel cielo là in alto. E infine la lenta caduta di un fico maturo e il suo spiaccicarsi al suolo in mille pezzi sanguinolenti.

 

 

OOO

Caio Fernando Abreu (1948-1996)  nasce a Santiago, nel Rio Grande do Sul, al confine con l’Argentina. Scrive i primi testi già all’età di 6 anni, ed a 18 il primo romanzo, Limite Branco. Scrivere è per lui “una cosa naturale, quasi un difetto di fabbricazione – l’impossibilità di vivere la vita senza inventare storie al margine”. Dopo aver abbandonato gli studi di lettere e arti drammatiche, nel 1968 si trasferisce a São Paulo ed inizia a lavorare come reporter della Veja. L’attività del giornalista si affiancherà sempre a quella dello scrittore, e gli permetterà di guadagnarsi da vivere. Dal 1971 passa a Rio de Janeiro ed è redattore di Manchete, Pais e Filhos e Zero Hora. I suoi libri ricevono intanto premi e menzioni speciali nei concorsi letterari. Nel 1973 vive tra Stoccolma e Londra, e l’anno seguente torna in Brasile dove collabora nella stampa alternativa che si sottrae alla censura del regime. Nel 1975 il suo libro O Ovo Apunhalado subisce i tagli della censura per “attentato al buon costume”. Nel 1982 pubblica Morangos Mofados, il libro che lo rese noto al grande pubblico, anche grazie all’omonima pièce teatrale. Negli anni seguenti vive tra Rio e São Paulo, collabora a quotidiani e riviste quali IstoÉ, O Estrado de São Paulo, A-Z, e scrive per il cinema e il teatro. Nel 1983 pubblica Triângulo das Águas, la sua opera più controversa, alla quale verrà attribuito il prestigioso premio Jabuti nel 1985. E’ del 1988 la raccolta di racconti Os Dragões não conhecem o Paraíso, che ne afferma l’indiscusso talento letterario. Due anni più tardi uscirà il secondo ed ultimo romanzo, Dov’è finita Dulce Veiga?, un viaggio allucinato nella São Paulo underground alla ricerca di una misteriosa cantante scomparsa.

La vita di Abreu conosce una svolta nel 1994, quando inizia a manifestare i primi sintomi dell’Aids. Sceglie di non fare mistero della sua condizione, scrivendo articoli e rilasciando interviste sul tema. La malattia, il progressivo indebolimento e la percezione di essere prossimo alla fine determinano in lui un’ansia frenetica di scrittura, di riorganizzazione della propria opera e di riconciliazione con il passato: ritorna nella terra di origine, a Porto Alegre (che nelle lettere agli amici chiamerà con ironia Gay Port), rimette mano ad alcuni suoi libri, pubblica racconti inediti, partecipa ad incontri e a mostre letterarie, conservando fino all’ultimo l’ironia e la dignità che lo avevano contraddistinto. Muore il 25 febbraio del 1996.

 

Abreu è lo scrittore che più di ogni altro suo conterraneo ha saputo interpretare e tradurre in arte le contraddizioni e le inquietudini di un paese moderno come il Brasile. Non una terra di frutti esotici e samba scatenati, ma una realtà complessa e post-moderna, urbana e irredenta, i cui protagonisti, come i loro simili in Europa o nelle metropoli americane, vivono sulla propria pelle le fatiche della modernità. Le sue sono storie di incontri e disincontri, di solitudini, di illusioni infrante, di momenti epifanici, di emozioni colte nel nascere con uno stupore quasi devozionale, nelle quali l’uso di una prosa attenta alle armonie e alla musicalità si sposa con una dimensione ipertestuale che spazia dal cinema alla filosofia, dall’astrologia agli echi e ai ritmi musicali, dallo spiritualismo di origine africana ad una gaytudine più allusiva che esplicita. Sono storie che racchiudono la testimonianza di un’intera generazione che dapprima ha conosciuto la rivoluzione sessuale e la repressione degli anni 60, e in seguito si è liberata dalle costrizioni sociali e morali per dare pieno sfogo alla propria immaginazione e individualità.

 

Della vasta produzione di Abreu sono stati pubblicati in Italia il romanzo “Dov’è finita Dulce Veiga?” (1993) e la raccolta di racconti “Molto lontano da Marienbad” (1995), entrambi dalle Edizioni Zanzibar.

Due racconti inediti di Abreu sono pubblicati sui seguenti siti internet:

Sagarana

Terence-spray (sez. narrativa)

Bruno Persico (Crema, classe 1961) ha fatto dello studio delle lingue e delle culture straniere il suo principale passatempo. Laureato in Inglese e Tedesco, approda sulle sponde atlantiche di Portogallo e Brasile grazie alla straordinaria tradizione musicale di questi due popoli, di cui si innamora perdutamente. Legge alcuni racconti di Abreu sull’aereo che lo riporta a casa dal primo viaggio in Brasile e ne rimane folgorato. La sua innata caparbietà, ma forse anche lo zampino di qualche Orixá, cospirano affinché gli venga affidata la traduzione della raccolta di racconti di Abreu “Molto lontano da Marienbad”. Resosi in seguito conto del carattere straordinario e universale di certi scrittori brasiliani, ha giurato di non darsi pace finché non li vedrà pubblicati anche in Italia. Nel frattempo, però, traduce anche altre cose e tiene corsi di Traduzione dal Tedesco all’Università di Bologna, città in cui ha scelto di vivere.