Alla ricerca dell'identità perduta

Darcy Ribeiro sulle tracce del vero Brasile in "Utopia selvaggia"

 

di Fabrizia Clerici

"Il significato dell'utopia selvaggia è la riflessione più profonda che potessi fare sulla nostra identità, sul nostro sangue, chi siamo noi se non siamo indios né europei? Siamo una terza cosa. Questa la perplessità di Bolívar che cercava se stesso. E più tardi di Mário de Andrade, di Oswald de Andrade. Così suppongo che Utopia selvaggia sia una riflessione basata sulla rilettura di tanti testi. Una riflessione e una rivalutazione del nostro sapere. Una lettura delle mie letture. Una ricostruzione, parodica, di quello che chiamiamo cultura. Con una buona dose di ironia, prendendo un po' in giro l'antropologia, i teologi, il marxismo. Con lo stile del carnevale, di quello che è il carnevale come dramma umano". Darcy Ribeiro ci consegna in mano un libro tanto profondo quanto dissacratore. In una sovrapposizione di storie e di punti di vista, di realtà e fantasia, di raffinata intelligenza e volgarità, lo scrittore si inoltra alla ricerca del vero Brasile. Ma partiamo dai fatti. Il negro Pitum, tenente dell'Esercito, si trova misteriosamente catapultato dal campo di battaglia nel regno delle Amazzoni, ove adempie alla sua funzione di unico procreatore, tra le angosce di venir ucciso e mangiato e l'incomprensione delle regole di questo incredibile microcosmo muliebre. Altrettanto misteriosamente, le Amazzoni lo fanno giungere in un villaggio indio dove due suore cercano di alfabetizzare e convertire gli abitanti. Diversi costumi, diverse lingue, diversi rituali. Forse quanto accomuna queste due esperienze è la difficoltà di stabilire una comunicazione verbale con le Amazzoni come con gli Indios, e la quantità di interrogativi che questi due mondi suscitano in Pitum: quale è il vero Brasile? Forse quello degli indios, condannati però alla perdita della loro identità: "così siamo noi brasiliani: indios disindianizzati, sradicati, detribalizzati". 

Tutti i personaggi di questa Utopia selvaggia tentano di difendere il "loro" Brasile, e di indagarlo, di scoprirne origini e meccanismi. Ribeiro, tra una battuta e l'altra, riempie le pagine di citazioni, rimandi, interrogativi, minuziose descrizioni che solo un antropologo della sua levatura può somministrare con tanta audacia. E quando meno ce l'aspettiamo, giunge un altro Brasile: quello descritto da un certo imperatore assoluto; attraverso un preciso e atroce organigramma di una società dove il potere e il piacere sono governati dalle multinazionali, assistiamo alla scomparsa degli altri brasili fino a qui raccontati. Siamo ormai al delirio totalitario che si ripropone di "disfare e rifare la natura umana: basta con l'esausto Homo Sapiens, largo all'Uomo Nuovo Programmato. (...) Tutti nasceranno istruiti e addestrati a vari compiti che eserciteranno con grande piacere". L'ordinamento politico, famigliare, religioso, i riti, i mezzi di comunicazione e gli svaghi - tutto: dovere e piacere, potere e droga, televisione e partecipazione popolare, tutto quanto viene strutturato e diretto dall'utopia multinazionale. Questo nuovo Brasile ormai ha perso il suo colore, la sua istintiva originalità, la sua bellezza. Si esce sconcertati dalla lettura di questo libro, che in realtà non dice nulla di nuovo, ma ce lo dice in un modo tale da farci sentire sull'orlo dell'abisso. Troppo è infatti quello che un popolo perde rispetto a quanto trae dalla cosiddetta civilizzazione moderna. Ormai il danno è compiuto, e sembra impossibile tornare indietro, o perlomeno frenare questo processo di autodistruzione. 

A commento di questo suo libro, Darcy Ribeiro riflette: "Qualunque operaio, o qualunque laureato, è stato trattato come una cosa, ha sempre un superiore, è un subordinato. L'indio non ha mai conosciuto la stratificazione. Ogni tribù che raggiungevo era una fucina di domande: chi è il signore del sale, chi è il signore del fiammifero. Convinti che io potessi spiegare e loro capire. I portatore che mi seguivano, contadini dell'interno, non restavano mai lì a sentire le risposte. Sanno di non sapere, sono rassegnati. Ma l'indio, nella sua innocenza, usa la testa. Ha molta più fantasia. Ed è estremamente meticoloso: un indio che fa una cesta, la fa con una volontà di bellezza che è diecimila volte superiore a quella necessaria per un lavoro del genere. (...) Tutti quelli che li hanno incontrati per primi, tutti, hanno pensato che fosse lì il paradiso terrestre. Vorrei tanto far fare qui a Rio un pannello, un murale, non so, una cosa grande che mostri gli europei che stanno arrivando sulle loro navi e gli indios sulla costa. Gli uni di fronte agli altri. Gli europei barbuti, capelloni, puzzolenti come bestie, con la faccia scavata, rosa dallo scorbuto, un'umanità orrenda, diabolica. E dall'altra parte gli indios levigati, colorati, sani. Credo bene che ci vedessero il paradiso. (...) Ora, all'improvviso, si trovavano di fronte, scoprivano un'umanità illibata, bella, innocente, che si muoveva leggera tra piante e fiori di indicibile bellezza. L'Eden."

 

Darcy Ribeiro, Utopia selvaggia - Einaudi 1987

Titolo originale: Darcy Ribeiro, Utopia selvagem. Saudades da inocência perdida. Uma fábula - 1982