AVVENTURE DI UN BRASILIANO PER LO STIVALE

Scusi, dove fica il duomo?

(ottava puntata)

 

di Luiz Eduardo Florian

 

 

                           Il nuovo vecchio mondo    



   
L'estate volgeva al termine, e il mio soggiorno nel Salernitano anche. Strano a dirsi, ma così come la invadono a inizio estate, la cittadina litoranea, ai primi di settembre la abbandonano. Anche il bar, immerso durante la stagione estiva in una frenetica attività, cominciava a trasformarsi. La terrazza enorme con i tavoli rotondi, quelli presenziati dal capotavola come vi avevo raccontato, prima così ricercate, finivano ingloriosamente in uno scantinato. 
Mi veniva da pensare alle rondini e a tutti quegli uccelli migratori di cui avevo sentito parlare nei libri, nel vedere tutta questa gente che mi salutava e che solo qualche giorno prima sembrava facesse, da sempre, parte del paesaggio.

Per cui s’imponeva anche a me la necessità di migrare. Proprio io che, nonostante fossi già da due anni in uno stato di “migrazione continua”, mi trovavo per la prima volta a dover partire volendo restare. Finora, quella strofa della canzone di Chico (viajar è partir sem ter onde chegar) mi aveva sempre mitigato il magone in occasione di situazioni che lasciavo, ma ora che mi sentivo immerso in un mondo per me affascinante, ecco che anche questo… se ne va. Beh, gli amori sono così: finiscono. Il dolore di oggi è la misura dell’intensità di ieri. Due respiri, due saluti, due ricordi nello zaino, e parto anch’io. Verso nord, dove vanno tutti. Ma dove, esattamente? Chissà. In tempi di smarrimento è meglio farsi guidare dalla corrente.

Dopo una tappa poco felice a Roma (peccato: città meravigliosa!), approdai a Bologna, grazie a qualche indirizzo avuto fra Negroni e caipirinhe quando ero nel “mio” bar Fiorentino. L’arrivo non fu male, anzi. Direi stupefacente: venni salutato da una marea umana con bandiere rosse e falce e martello. La cosa mi mise subito sul chi vive, perché in Brasile, non avevo mai avuto un gran feeling con i comunisti. Anzi, proprio per niente: da buon anarchico, erano i mei avversari naturali. All’università, nonostante l'accordo su alcuni temi comuni, le botte erano sempre con loro. Ma questi erano centinaia, chessò, migliaia, mica come i quattro gatti trotskisti che conoscevo io, per cui conveniva volare basso: entrai nella corrente e stetti a guardare. In un certo senso, erano anch’essi familiari: la mia università era a São Bernardo do Campo, culla di Lula e del PT. Cambiava il simbolo, ma il rosso era sempre quello. Caldo, per giunta. Per cui, tutto sommato, lo presi come un benvenuto.

Ricominciai con il solito giro di lavoretti, e mi capitò di servire in un circolo Arci, enorme, dove la tombola era padrona dei discorsi di centinaia di pensionati. Era strano, perché il vecchio, nella mia realtà in Brasile, era qualcosa che semplicemente non esisteva: rintanati in casa, a fare i nonni, a girare per la spiaggia come se avessero tutto il tempo del mondo. Insomma: alieni. Qui era tutt’altro, non fosse per i capelli grigi sarebbero stati tali e quali alle bande di ragazzi con cui uscivo a vedere la vita. In più, l’organizzazione del circolo era sempre in frenetica attività: viaggi, corsi, conferenze, riunioni politiche dove fra un bianchetto e un altro non era raro che si prendessero a schiaffi. Cittadini, insomma, cosa c’e’ da stupirsi? E così mi vergognavo del mio, di stupore.

E, parlando di cittadinanza, che dire della schiera di ragazzi, come me, artigiani, falegnami, fabbri, idraulici, insomma, tutta gente che vantava mestieri che ero abituato, in Brasile, a vedere come un ripiego, da poveri, da chi non c’e’ l’ha fatta o non ha voluto farcela. Un calzolaio, a São Paulo, ti tocca andare a cercarlo nei quartieri vecchi, o poveri. Qui, ce n'era uno il cui ufficio sembrava una boutique. Lavoratori, perdonate la retorica, gente coi calli alle mani e tutti al pari di ingegneri, architetti, bancari, universitari, con la stessa dignità. Non che in Brasile la stessa dignità non la abbiano, ma in un mondo dove l’economia di mercato selvaggia (che regola anche, com’e’ ovvio, i rapporti sociali) colloca questi mestieri in fondo alla scala dei valori, è difficile fare una scelta del genere. Qui, no. Fra l’ingegnere e il falegname, o l’idraulico, poco ci passa, monetariamente parlando. E in alcuni casi, il rapporto era addirittura ribaltato. E io, che ho sempre sognato in fare l’ingegnere, vedevo quanta poca congruità avevano i miei sogni.

Una sera, all’uscita, mi capitò di essere investito da un taxi. Un male cane, il piede che diventa un pallone, corsa in pronto soccorso. Oddio, pensai, no, no, mi arrangio da solo, grazie, tutto meno un conto ospedaliero salato da pagare. Il terrore era tanto che qualcuno credette che io fossi clandestino. Mi lasciarono al pronto soccorso, feci la notte fra dolori e progetti di evasione: come facevo a pagare? Il mattino mi portò un piede fasciato e un medico amichevole, che tutto mi diede tranne che il temuto conto. Ma come? Gratis? Così? Posso andare? Ah, debbo tornare? Figurati, sai quando mi vedi? Invece no: tornai, venni curato, e non sborsai una che sia una lira. Ed ecco di nuovo il clan, l’unica struttura che bada anche ai più deboli, la versione metropolitana di quel senso di appartenenza che avevo già osservato in quelle nelle tavolate a pranzo, laggiù nel Salernitano. Soltanto qui la dimensione era molto, molto maggiore: dal clan alla piazza, alla civitas

Se l’imbattermi con gli antichi codici sociali nel sud mi rendeva deferente, qua venivo letteralmente messo al tappeto. Certo, mica siamo ignoranti in Brasile, il welfare state europeo lo conoscevamo eccome. Ma un conto è averne conoscenza, un altro è viverlo. Un po’ come per il termosifone: sai cos’e’, ma ne comprendi davvero l'essenza solo quando arriva il freddo. Per cui cominciai, all’ombra delle due torri, a entrare nella mia vita di “italiano ufficiale”: feci la residenza, presi una carta d’identità, il codice fiscale. Andai in giro tronfio d’orgoglio per quella frasettina stampata dentro la carta d’identità: «cittadinanza italiana». E cominciai a divorarne la storia, e a voler entrare anch’io in questa civiltà. Il che cominciò a cozzare non poco con l’anima del viaggiatore, dell’uccello senza nido che vede tutto, ma sempre dall’alto. Avevo voglia di scendere, di posarmi, di farne parte, di questa nuova civiltà. Ripresi, quasi senza accorgermene, gli annunci di lavoro che riguardavano il mio “vecchio” mestiere, l’informatico. 

E tutto questo mi portò ancora lontano, ancora più a nord, e approdai a Milano. Non male: arrivare nella città del lavoro, con il lavoro già in tasca. Con tanto di libretto, contratto nazionale da leggere, e voglia di sapere come avevano fatto ad ottenerlo, quel contratto. Ma, anche qui, ovunque mi girassi trovavo la falce e il martello, e le mie beghe con i comunisti. Ma dov’erano finiti tutti gli anarchici della Zelia Gattai, i Malatesta, i fondatori della colonia Cecilia, insomma, dov’erano andati? Erano tutti emigrati in Brasile, pensavo, e cominciavo a rimpiangere fortemente di aver lasciato São Paulo. Fino a quando un giorno, in una discoteca, si tenne un evento, una manifestazione. Lì erano tutti di sinistra, i “miei” comunisti compresi, che anzi formavano la maggioranza. Contro i quali, in soldoni, non avevo niente da ridire, anzi: tutto ciò che mi affascinava nella “nuova” civiltà aveva il loro zampino, poggiava sul loro operato. Quel giorno si manifestava contro la rimozione di una targa commemorativa. Di un anarchico. Giuseppe Pinelli. Lo conoscevo bene, io, il Pinelli. E non solo per via dell'opera di Dario Fo, rappresentatissima in Brasile. 

Che dire? Vedete, gli eventi che ci portano avanti non sono mai scollegati tra loro. Ognuno di noi ricorda il momento in cui scende dal muretto dei bulli e comincia a rivendicare uno spazio più ampio, iniziando a imparare da chi ha costruito di te. La mia storia cominciò, a 17 anni, a Sao Paulo, nel Bràs, in un saloncino sperduto situato sopra una vecchia calzoleria. La gestiva un tale Jaime Cuperlo, anarchico figlio di anarchici, e lì sotto si riunivano in tanti a raccontarsi le croci della dittatura militare e le delizie dell’avventura anarchica nel mondo. Il mio saloncino nel Bràs era intitolato a Josè Pinelli. Giuseppe, ormai, era senza più nemici. E io ora mi ritrovavo ed ero tornato, in un certo senso, a casa.