«Dal Candomblé ho imparato la tolleranza»

Intervista  a  Giovanni  Ricciardi,  docente  di  Letteratura
portoghese e brasiliana presso l’Istituto Orientale di Roma

 

 

di Silvia Zingaropoli 

 

 

 

Andate a una qualunque delle duemila case di candomblé delle diverse nazioni africane e delle nazioni indigene, nagô, jeje, ijexá, congo, angola e caboclo che si trovano a Bahia, in tutte sarete ben ricevuti, con larghezza e signorilità: chi viene in pace entri a suo agio. (...) Il viaggiatore, che  sia ricco o povero, negro o bianco, giovane o vecchio, erudito o analfabeta, a condizione che venga in pace, potrà partecipare alla festa del candomblé, dove dei e uomini sono uguali, cantano e danzano insieme: la fratellanza universale.

JorgeAmado - da: "Santa Barbara dei Fulmini", Garzanti, Milano, 1997)

 

 

 

    Magia e sacralità, fascino e mistero, danza e devozione, santi e orixás… tutto questo è candomblé. Questo nome brilla delle sue radici africane, e indica al contempo “danza” e “luogo della festa”: perché il candomblé si celebra danzando, al ritmo incessante e coinvolgente degli atabaques, artefici di un’atmosfera avulsa dal tempo e dalla logica. Quello che accade nel corso di un candomblé può turbare anche il più ostinato degli scettici. Portata dagli Yoruba al tempo del traffico degli schiavi dall’Africa verso le Americhe, questa religione affonda le sue radici in antichissime credenze africane, tra le più antiche della storia dell’umanità. Il candomblé, giunto nel Nuovo Mondo, divenne ben presto una “pratica vietata” in quanto “basata su rituali barbarici e demoniaci” e fu per questo bandito; nonostante ciò, il culto degli orixás continuò a essere osservato mediante alcuni espedienti: per poter occultare le loro pratiche, gli africani identificarono i loro orixás con i santi cattolici, riuscendo così a passare inosservati. Col tempo però i vari elementi si andarono a fondere in un unico corpo dando luogo, gradualmente, al candomblé che conosciamo oggi. E del fascino, della suggestione, ma anche del significato profondo del candomblé musibrasil.net torna a occuparsi, dopo un precedente servzio pubblicato alcuni mesi fa sull'"Adica", l'Associazione italiana per la diffusione di questa religione afrobrasiliana, con un'intervista a Giovanni Ricciardi che è docente di Letteratura portoghese e brasiliana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Istituto Universitario Orientale.

 

Può spiegarci, in linea generale, cosa sia il candomblé?

«E' una cerimonia sacra che può esser celebrata sia in forma di ringraziamento, sia in veste propiziatoria, sia per un ex-voto. Si svolge in un terreiro, termine che significa “terra battuta” poiché normalmente la cerimonia si svolgeva in luoghi poveri e privi, appunto, di pavimento; in un angolo di questo terreiro vi è l’orchestra che può essere molto ricca, ma anche appena essenziale. Gli strumenti usati sono gli atabaques (ossia i tamburi che possono essere di vario tipo), l’agogô, due campanelle di ferro sovrapposte che si percuotono con un bastoncino e la cabaça, una zucca svuotata. A capo di ogni terreiro (luogo che potremmo paragonare a una parrocchia) c’è un pai-de-santo o una mãe-de-santo (ossia il sacerdote e la sacerdotessa) assistiti dai filhas-de-santo; per diventare filho-de-santo bisogna ovviamente superare un periodo di preparazione molto severa. In un altro angolo del terreiro viene preparato l’altare dove sono predisposte le raffigurazioni degli orixás di tipo africano e dei santi cattolici: una delle caratteristiche del candomblé, come della macumba o del vudú, è proprio questo sincretismo religioso nato in seguito al contatto delle diverse etnie africane con la religione cattolica. In passato gli schiavi delle fazendas, alla fine della giornata o durante la domenica dopo aver assistito alla messa della chiesa cattolica, avevano il permesso di dedicarsi alle proprie danze. La pratica del candomblé era assolutamente  vietata all’interno della fazenda ma, quello che non avevano capito i “padroni”, era il fatto che la danza e il culto sono essenzialmente unificate nella religione di tipo africano. Una delle direttive culturali della colonia brasiliana e delle fazendas era l’antico detto romano divide et impera: dividere gli schiavi dalle proprie etnie e tribù per mantenere separati i vari gruppi, evitando che si potessero unire dando luogo, come storicamente è accaduto, a coalizioni come la famosa e duratura República dos Palmares, fondata da un’alleanza di schiavi fuggitivi. Bisognava evitare a tutti i costi che gli schiavi si aggregassero».

Deve essere molto interessante assistere ad una cerimonia di Candomblé. Lei lo ha mai fatto?

«Ho assistito a due cerimonie: è molto suggestivo. Comincia al ritmo dei tamburi, ed il capo del terreiro – il sacerdote o la sacerdotessa – apre le danze con le  filhas-de-Santos, ognuna vestita secondo l’Orixás principale che viene celebrato, oppure a cui è dedicato il terreiro.  I colori e i nomi dei santi non sono sempre uguali: a Bahia c’è una corrispondenza, a Rio un’altra. Possono sempre cambiare».

Lo stesso termine candomblé, utilizzato per lo più a Bahia, varia a seconda del luogo: a Pernambuco c’è lo Xangô, a Rio Grande do Sul il Batuque…

«Sì, ma cambia soltanto il nome, hanno assolutamente lo stesso significato. Ad esempio a Rio lo chiamano Macumba. I santi invece possono cambiare di regione in regione. Legga ad esempio come Jorge Amado, in Jubiabá, ci descrive le corrispondenze tra santi ed orixás, a Bahia»:

 

Sull’altare cattolico, eretto in un angolo della sala, Oxossi rappresentava San Giorgio; Xangô, San Girolamo; Omulu, san Rocco e Oxalá il signor di Bonfim, che è il più miracoloso dei santi cattolici della città negra di Bahia de Todos os Santos e del santone Jubiabá. Il signore di Bomfim è  il santo che ha la festa più bella a Bahia, perché la sua festa assomiglia in tutto e per tutto a un grande candomblé o a una grande macumba.

 

«L’orchestra comincia a suonare, iniziano le danze; i danzatori bevono cachaça fumando sigari. Evidentemente il ritmo monotono, ossessivo, la cachaça e il fumo aiutano. Però possono accadere cose strane, inspiegabili: come è accaduto a una macumba cui ho assistito a Rio de Janeiro, fatta nel giorno dei santi Cosma e Damião, festa dedicata ai bambini che durante il giorno vanno di casa in casa chiedendo dolcetti, caramelle, doni; e la sera ha inizio la festa degli adulti, la Macumba. In questo caso non si trattava del solito retrobottega, ma di un cortiletto al terzo piano di una casa popolare: l’altare era stato allestito in una piccola saletta molto nascosta senza finestra, alla quale non si poteva accedere se non con il permesso della sacerdotessa, ed era assolutamente vietato fotografare (al contrario della cerimonia e delle danze). A un certo momento della cerimonia, delle danze, del fumo e della cachaca, la sacerdotessa cade in trance e viene accudita da tre o quattro filhas-dos-santos. Ed ecco che arriva il momento della possessione: una delle filhas, una negra enorme con la voce rauca (perché fumava la pipa e il sigaro), viene posseduta da María Menina, una degli orixás. A un tratto  la sua voce diventa finissima e lei, che a mala pena riusciva a camminare,  comincia a saltellare come una bambina. Al momento del suo risveglio, la donna non ricorda più nulla. Sono esperienze che rimangono».

Lo studio di questo argomento ha cambiato in qualche modo il suo modo di vedere la vita?

«Mi ha certamente reso molto più tollerante. Lo studio della religione, della letteratura e della cultura brasiliana, ci fa conoscere un mondo molto diverso dal nostro: in Brasile assistiamo al totale superamento del pregiudizio razziale. Molti non sono d’accordo con questa tesi, ma secondo me in Brasile quello che ancora esiste non è pregiudizio razziale epidermico e fisico, ma solo un fastidio per l'altrui condizione economica. Esiste un razzismo, sì, ma di tipo economico e di classe sociale».

L’unico centro di Candomblé a Roma è stato chiuso qualche tempo fa. Lei sa di altre comunità italiane dove il Candomblé viene praticato?

«Non so se ne esistano. Però a Napoli, di mattina molto presto, ho spesso notato nei crocicchi delle strade dei ceri spenti, tipici del Candomblé. Ma in realtà possono essere usanze proprie di altre forme di religione, africane o centroamericane. Inoltre, che io sappia, la comunità brasiliana a Napoli è di molto inferiore a quella di Roma anche se non so precisamente a quante persone conti».

Come è nata in lei la passione per il Brasile e la sua cultura?

«Ho vissuto in Brasile per alcuni anni: ero chierico salesiano, volevo farmi prete. Ho vissuto con i salesiani per due anni; in seguito sono stato altri quattro anni per conto mio, fino al ’64, anno in cui sono tornato in Italia, dopo il golpe, ma indipendentemente da esso. In seguito, all’università, ho avuto un grande professore che ha alimentato in me la passione per questo meraviglioso paese e la sua cultura».

Nota particolare interesse da parte dei suoi studenti nei confronti della cultura brasiliana?

«Diciamo che ciò che più coinvolge i miei studenti è, come sempre, la musica. Qualcuno è appassionato di cinema, ma da qualche anno è la politica ad attirare di più l’attenzione dei miei ragazzi: il Forum di Porto Alegre, e adesso, con il nuovo presidente, l’attenzione è cresciuta ulteriormente. Ogni volta che uno dei miei studenti va in Brasile - avendo stipulato una convenzione con alcune università brasiliane - non vuole più tornare. Il Brasile è un paese talmente diverso e talmente meraviglioso che ce ne si innamora facilmente».