Storie di vita e di morte nella grande discarica

Una comunità ha abitato nel lixão di Alverenga, alle porte di S.Paolo

(prima parte)

 

di 

Vanessa Schultz

Renata Leão

 

 

traduzione di Gianluca Notarianni

 

 

 

 

(em portugues)

Prefazione

 

        La  notizia che avremmo dovuto fare un lavoro di conclusione di Corso ci giunse all’inizio del 2001. Per la prima volta avremmo potuto fare, nella Facoltà, un lavoro nel modo che volevamo. Avevamo l’opportunità di realizzare un grande reportage di natura sociale, cosa che difficilmente il mercato del lavoro favorisce. Il lixão (la discarica, ndt) di Alvarenga, in 30 anni di vita è assurta al ruolo di personaggio, con una vita propria, nella storia della grande ABC (Santo Andrè, São Bernardo e São Caetano comuni della cosiddetta Grande São Paulo, ovvero l'hinterland della popolosa capitale, ndr). Inoltre, l’esistenza di una discarica non costituiva solo un problema ambientale, ma anche giuridico-sociale. Avvicinarsi a queste persone doveva essere il primo passo: il più difficile. Capimmo immediatamente che esisteva un rancore nei confronti dei giornalisti. Il maggior reclamo che ascoltammo fu sul modo in cui questi si avvicinavano a loro. Raccontano che arrivano lì solo per scattare foto senza chiedere niente a nessuno, per questo dicemmo che eravamo studentesse il cui obiettivo era far conoscere la storia della loro comunità. Passarono cinque mesi prima che potessimo fare la prima intervista ufficiale. Ciò nonostante, sino alla fine del lavoro (ottobre 2001) la comunità del lixão ancora non si sentiva a proprio agio di fronte alla macchina fotografica. A Luglio 2001 fummo prese di sorpresa: la discarica abusiva fu chiusa. Col tempo furono venduti tutti i rifiuti che ancora avevano un mercato e le famiglie con cui avevamo stabilito un contatto rimasero senza lavoro.

Le storie di vita narrate nella nostra indagine cominciano a partire dalla chiusura del lixão, dalla fame che diventò una costante nella loro quotidianità. Glia attori non sono che comparse circolanti attorno al personaggio principale: la montagna di rifiuti di trenta metri e trent’anni di vita. Il lixão di Alvarenga equivale a un palazzo di 10 piani, con un’area di 40 mila metri quadri pari a 363 campi di calcio. Fino alla sua chiusura circa 300 famiglie dipendevano dalla vendita dei rifiuti trovati in mezzo alla discarica. Decidemmo allora di entrare nella casa di una di queste famiglie per capire come fosse il quotidiano di persone che vivono una vita piena di incertezze. Da quando arrivarono da tutti gli angoli del Brasile per tentare  la fortuna a São Paulo. Innumerevoli tentativi di sopravvivere nella grande città li ha relegati, alla fine, a un’esistenza che ruota intorno alla discarica. In alcune parti del reportage abbiamo preferito mantenere il parlato originale del personaggio affinché il lettore penetrasse ancor di più in questo mondo sconosciuto. La conoscenza sia delle persone che del lixão ci ha fatto comprendere come questo argomento sia difficile e complesso per poter ricercare una soluzione immediata, ma che intanto le famiglie hanno necessità di condizioni di vita e di lavoro degne di questo nome.

I problemi esistenti dal 1972 riguardano civili, autorità pubbliche ed ambientaliste. Abbiamo cercato di analizzare tutti gli aspetti ma abbiamo capito che la complessità della materia non permetteva, in soli 7 mesi, molta investigazione. Felicità ed indignazione. Sono questi i due sentimenti che avvertiamo dopo aver concluso questo progetto che riguarda un caso cosi polemico di abbandono politico, sociale e ambientale. Tutto ciò che abbiamo fatto per gli abitanti del lixão  è stato quello di ascoltarli con rispetto dando loro dignità degna di ricordo. Speriamo sinceramente che la società e il potere pubblico facciano ciascuno la loro parte per salvare non solo la vita dei raccattatori di rifiuti, ma anche la natura.

 

 

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La fine e la fame

 

          Miasmi, rifiuti e tutt’intorno il vuoto. Personaggi presenti nel lixão di Alvarenga, il 16 luglio giorno della sua chiusura: Polizia Federale, Militare e Civile, autorità pubbliche, stampa e raccoglitori di rifiuti; tutti riuniti all’entrata della discarica,  localizzata nella Strada di Alvarenga, nel municipio di Diadema, che fino a oggi è stato il principale crocevia dei camion diretti al lixão. Un clima di attesa aleggiava nell’ aria...  Un trattore rosso apriva un solco per bloccarne l’accesso. Prima della fine del lavoro, le auto dei giornalisti presero la strada che portava in cima alla discarica e contrariamente al solito l’entrata dei reporter mai era stata così facile. Altre volte gli sguardi sfiduciati erano sempre presenti. Quando arrivammo in cima, assistemmo ad un'immagine impressionante: non c’era nessuno che raccogliesse i rifiuti. Rimanevano solo le esalazioni  tipiche di una discarica e la sua enorme vastità che  continuava  ad impressionarci. In quel giorno di sole forte ma freddo, tipico delle giornate di luglio, i raccoglitori di rifiuti erano chiusi in casa o stazionavano di fronte all’ ingresso della discarica. Se fosse stato un giorno normale li avremmo visti vagare come  in un girone dantesco alla ricerca di rifiuti. Alcuni  trasportando sacchi per collocare quello che trovavano,  altri spingendo carretti pieni di immondizia, mentre una fila interminabile di camion non cessava di alimentare il “mostro”. La nostra guida all’interno del lixão fu Wanderley. Lui fu il primo “abitante” della discarica che conoscemmo e con cui prendemmo contatto per poter entrare tranquillamente senza essere oggetto di sguardi diffidenti.

Giravamo per le strade strette che dividevano le montagne di pattume che si erano formate a partire dal 1972. Il giorno della chiusura, inoltre, fu per la prima volta che andammo sole attraverso la discarica senza essere accompagnate da nessuno. Per arrivare fino a casa di Wanderley passammo in mezzo ai rifiuti bruciati la notte precedente che emanavano un fetore tanto forte da rimanere impregnato nelle narici:  tanfo di carne putrefatta, unito al puzzo di  gomma bruciata e zolfo. Arrivammo a casa di Wanderley,  lo facemmo chiamare dal padre Manoel, ma lui ci disse che non stava in casa. In quel momento giunse Washington, il terzo figlio di Wanderley, che nelle mani aveva una busta di plastica con 6 pani. Entrammo in casa.Una discesa  sdrucciolevole dava accesso alla piccola casa al cui interno stavano Ivanilda, moglie di Wanderley, e gli altri 3 figli Aline, Luciléia e Vinicius.Un tavolo, una televisione, un armadio e poche sedie costituivano il semplice arredamento della casa;  la veranda era piena di bidoni d’acqua usata per bere,  per cucinare, per la pulizia personale e della casa, e una volta alla settimana camion-cisterna approvvigionavano le case. Conversammo un poco con Ivaninilda su quello che poteva succedere dopo la chiusura della discarica e lei ne aveva paura, poiché non sapeva come sostentare  i suoi 4 figli.  La rendita familiare fino a quel momento era data dal lavoro di Wanderley nel lixão e dalle pulizie che lei faceva ogni 15 giorni per soli 40 reais. Mentre parlavamo con lei, il figlio minore Vinicius mangiò voracemente 5 pani. Quando Aline lo vide si arrabbiò e disse “ Vado a garantirmi il mio”. Prese l’ ultimo pane e lo nascose nell’armadio.Dopo aver conversato con Aline ritornammo all’entrata della discarica, dove si erano radunati  molti più abitanti che erano preoccupati per il loro futuro. Molti di loro ancora non erano a conoscenza della chiusura. La disperazione delle persone era determinata dalla perdita del lavoro, non sapevano cosa potevano fare a partire da quel momento. Fino al giorno della chiusura, il municipio di Diadema ancora non aveva definito un programma per il loro ricollocamento nel mercato del lavoro. Il municipio di São Bernardo  affermava che le famiglie che abitavano in quel comune  già partecipavano a un programma a partire dal 1997 per produrre un salario attraverso corsi e lavori tenuti presso il Centro di Riciclaggio, ma che  fu inaugurato solo  nel gennaio di quest’ anno (anno 2001, ndr). Dopo vari segnali sulla chiusura del lixão, iniziati con la creazione del Cetesb ( Compagnia di Tecnologia e Risanamento Ambientale) nel 1976, l’azione del giorno 16 sembrava essere concreta. La definitiva chiusura della discarica fu annunciata il 5 di luglio dai comuni di São Bernardo e Diadema. Con una grande operazione in cui venivano annunciati la presenza di controlli all’ingresso della discarica. L’entrata principale dei veicoli fu chiusa, e nelle altre tre, dove i camion difficilmente passavano, furono collocati divieti di accesso. A partire da quel giorno fu vietato il passaggio a qualsiasi veicolo diretto all’immondezzaio. Lo slogan utilizzato dal comune di São Bernardo per annunciarne la chiusura era  Il Lixão di Alvarenga sarà chiuso - non lasciare che l’ immondizia sia il tuo vicino. Dopo l’effettiva chiusura della discarica, le famiglie che vivevano con la vendita dei rifiuti passarono a dipendere dalla fortuna e dai programmi sociali organizzati dai Comuni. Non esisteva alcuna prospettiva di lavoro. La famiglia di Wanderley fu una delle 144 il cui futuro rimaneva incerto. Comunque sia, la sua chiusura non avrebbe risolto tutti i problemi legati ad un lixão di 40 ettari situato in un’area  di protezione delle acque. L’area, infatti, si trova ad appena 300 metri dal bacino di Billings le cui acque riforniscono la grande ABC. Oltre a questo, 144 famiglie dipendevano economicamente dalla sua esistenza e ora erano rimaste senza alcuna prospettiva di vita. Il giorno 16, la sfida per recuperare quest’ area era appena cominciata.

  

 

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Il lupo Guarà

  

        Tanti nomi per una persona sola. Guarà. “ E’ lo stupido soprannome che mi diedero”. E’ cosi che Wanderley Augusto, nome artistico di Josè Everaldo Bezerra Oliveira, definisce uno dei suoi tanti soprannomi. “ Le persone qui mi conoscono con questo nome, se domandate di Wanderley nessuno saprebbe dirvi chi sia”. A casa sua lo chiamano vezinho, nonostante sia un uomo di 30 anni. Il 1° aprile 2001 noi lo aspettavamo nella Strada di Alvarenga, all’entrata situata nel comune di São Bernardo. Era la prima volta che andavamo al Lixão. Un connubio di timore e ansia ci assalì. Arrivò un Fusca (nome dato in Brasile al Maggiolino Wolkswagen). Era lui. Fu il primo di una serie di incontri che avemmo con lui. Mentre camminavamo avvertimmo una sensazione di mistero. Quando si sale per la ripida e stretta strada, circondata dalla boscaglia, gli sguardi si perdono tra alberi e rifiuti. A volte, se il giorno è umido, è possibile percepire il profumo del verde bagnato dalla rugiada. Improvvisamente ci apparvero le case e l’immenso lixão. La prima volta che si sale su quella montagna di rifiuti l’esperienza è impressionante. Terra, rifiuti e miasmi terrificanti. Camminando nel lixão, si vedono solo montagne create da cumuli di residui di materiale da costruzione, di tanto in tanto appaiono cani e topi morti oltre a resti avariati di cibo. Fino al 16 luglio 2001, i camion continuarono a fare la spola da e per il lixão. Il movimento era scarso e si limitava alle giornate di domenica, nelle quali solo poche persone andavano a raccogliere oggetti di cui avevano bisogno.

A partire dal 1987, Guarà vive con i rifiuti. Lui fa parte di quella moltitudine di nordestini che emigrarono dalle loro terre natie in cerca di fortuna nel Sud-Est. A 15 anni lasciò Arco Verde, nello stato di Pernambuco, per seguire i genitori Manoel e Maria do Socorro. Vissero in una casa in Americanopolis, zona Sud della capitale Paulista. Secondo lui negli anni ottanta “ la gente poteva scegliere il lavoro che voleva”. Lavorò in un laboratorio di assistenza e subito dopo in una fabbrica. Dopo circa 2 anni la sua famiglia si trasferì nei pressi del lixão. Lui disse che i genitori considerarono il posto più tranquillo. Cominciò allora a lavorare come guardia notturna in un negozio di mobili a Diadema. In questo periodo, all’età di 19 anni “ andando a spasso per la strada” conobbe Ivanilda, che fu sua moglie fino all’ agosto del 2001.”Io ero uscito per andare a lavorare e ci conoscemmo per strada. Andò così”. Risposta semplice per raccontare l’inizio di una relazione difficile. Successivamente cominciò a lavorare come portinaio di un condominio. Quando perse quest’impiego, il fratello maggiore lo chiamò per andare a lavorare nel lixão. "Dissi, non lo so. Io ero già abituato a lavorare in azienda. A quel punto non ebbi nessun altra scelta, già ero padre e dovetti accettare. Ma lo feci per i miei figli non per me”. Lavorare tra i rifiuti fu la maggiore difficoltà che incontrò da quando era arrivato. “ E’ un tipo di lavoro che pregiudica la salute a causa del cattivo odore e dell’ambiente malsano. Le persone danno l’impressione di non avere altra scelta. Oggi non puoi sceglierti il lavoro come accadeva prima”. Continuò allora a fare due lavori, fino a quando non decise di lavorare solo nel lixão.” La notte lavoravo in una radio come tecnico del suono. Il giorno stavo nel lixão. Mi accorsi che lì giravano parecchi soldi. Dissi alle persone della radio che avevo trovato un altro impiego e dovevo andare via”. 

A quel tempo solo Diadema aveva ricevuto dal Cetesb (Compagnia Tecnologica di Protezione Ambientale) il permesso di utilizzare l’area per scaricare i rifiuti. In quest’area, di pertinenza del comune di Diadema, solo il 10% del suo totale - pari a 40 mila metri quadrati - era una discarica controllata. L’altro 90% che fa parte del comune di São Bernardo cominciò a essere utilizzato come discarica abusiva e presidiato dagli stessi raccoglitori di rifiuti. Quest’area era divisa in vari appezzamenti, e ognuno era proprietario del proprio spazio. Le persone che lavorano lì sopravvivevano chiedendo un pedaggio, tra i 5 ed i 10 reais, ai camion delle imprese private che volevano buttare i rifiuti. E guadagnavano ancor di più rivendendo i rifiuti già separati. Guarà guadagnava dai 3 ai 5 mila reais al mese (3 - 5 milioni di lire).  La cifra variava a seconda del materiale venduto. Un camion pieno di carta valeva anche 300 reais. Secondo lui ogni giorno andavano via due camion pieni di carta. Tutto questo denaro veniva diviso con il fratello che viveva a Iguane. Guarà dice che loro stessi chiamavano le imprese per accordarsi su come scaricare i rifiuti. Ma l’idea di controllare uno di questi appezzamenti del lixão cominciò a dargli problemi. Quando gli altri scoprirono che lui e il fratello stavano guadagnando molto, iniziò una lotta per disputarsi i camion. Questo fatto generò discussioni e disaccordi nella comunità del lixão.

Guarà disse che riceveva molte minacce: “ a volte succedeva che mentre tutti lavoravano arrivava un camion e tutti litigavano per assicurarsi il carico”. Per evitare litigi iniziò ad andare al lavoro armato per proteggere il proprio spazio, ma disse di non aver mai utilizzato la pistola. Dopo che iniziò ad abituarsi a questo tipo di lavoro, confessò che la cosa più importante che aveva imparato era quella di guadagnare denaro, perché così aveva raggiunto il suo scopo:” Comprai la mia casa e la macchina, oltre agli strumenti che sempre avevo desiderato. Ora ho tutto quello che è necessario per suonare, anche se non è il meglio del mercato”. Guarà faceva quello che gli piaceva quando andava a Brasilandia, nella zona Ovest di São Paulo, a suonare il forrò (musica tipica del Nord-Est, ndr) con la sua tastiera. Guadagnaca 80 reais quando suonava dalle 22 alle 4 del mattino. “ Registrare il mio cd, avere successo e poter aiutare la mia famiglia e qualcun’ altro che ne avesse bisogno, come io ho bisogno in questo momento”. Sogni che alimentava per il periodo successivo alla chiusura del lixão, quando incominciò a dipendere dal denaro guadagnato durante quelle notti di forrò. Il 4  agosto desiderava ancora portare i figli in un altro luogo. “ Loro si sono abituati perché sono nati qui. Ma io non voglio che crescano in questo posto. Volevo portarli in uno più tranquillo, dove ci fosse una scuola,  una guardia medica più vicina. Questo non è più un luogo salubre: troppe esalazioni, troppo inquinamento, miasmi insopportabili. Il 26 dello stesso mese, Ivanilde pose fine ai sogni del marito bruciandogli la tastiera. Lo strumento era il bene più caro acquistato con il denaro del lixão. Con lui aveva la possibilità di avvicinarsi a quelli che considera i maggiori piaceri della vita: suonare e cantare. Fu la scoperta della tastiera e l’ingresso nel mondo artistico che modificarono il nome di Everaldo in Wanderley Augusto. Dopo il litigio con  Neca, abbandonò la famiglia ed andò a vivere a Brasilandia. Tutto quello che aveva conseguito di meglio dalla vita, si dileguò. Mancanza di lavoro, distruzione della sua tastiera, separazione dalla famiglia e cambio di casa.  

 

     

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I genitori del lupo

 

        Io ho già sofferto tanto nella mia vita al punto che se parlassi delle mie sofferenze voi piangereste”. Manoel de Oliveira, 74 anni. E’ un uomo basso con i capelli bianchi, sorridente e con un cappello di cuoio in testa. Il suo modo di parlare è tipico del Nord del Paese. Racconta che proviene da terre lontane ed aride. “Sono figlio naturale della Paraiba. Ho due origini. Mio padre era figlio naturale di Bahia quando, da bambino, si trasferì nel Paraiba e mi registrò come Paraibano. Sua madre “è figlia naturale di Pesquiera.” Da quando fu registrato nel municipio di Monteiro (Paraiba), Manoel conserva storie di  "vita sofferta” come lui stesso le definisce. “Lavoravo notte e giorno, durante le notti di luna piena non dormivo: lavoravo. Il sogno di tutta una vita fu di avere una fazenda, un cavallino e una mucca da cui prendere il latte. Ma non ho mai potuto. Lavoravo solo per poter mangiare.”. Manoel insieme a Maria do Socorro Bezerra Oliveira, madre di Wanderley, ebbe 13 figli. Ma lui era padre anche di altre due bambine figlie del suo primo matrimonio che terminò con la morte della sua prima moglie. La prima moglie cercò di uccidersi, chiese alle due figlie di 4 e 7 anni di uscire fuori di casa, si cosparse la testa di benzina e si diede fuoco. Le gravi ustioni la fecero morire. Dopo due mesi Manoel incominciò una relazione con Maria do Socorro che va avanti da 41 anni . “Lui era vedovo. Sua moglie morì a maggio ed in luglio ci siamo fidanzati. Passò più di un anno perché potessimo sposarci. Andammo ad abitare nel Sororò e lì ci sposammo.” Lei aveva 21 anni. Maria do Socorro allevò le due bambine del primo matrimonio di Manoel, anche se loro non la chiamarono mai mamma. Si formò dunque la famiglia che poco tempo dopo emigrò per São Paulo. “Ricordo che arrivai qui il 24 maggio del 1987”. Prima di venire con gli altri 11 figli, tre vivevano già a São Paulo. Questo trasferimento definitivo fu il secondo tentativo di migliorare le condizioni di una vita sofferta. Manoel si ricorda che la prima volta non ebbe fortuna in quanto non trovò nessuna chácara dove potesse stare con tutta la famiglia. E allora lui ritornò per il “Vecchio Norte”. “Cercai  una chácara dove lavorare. Arrivai qui, mi impegnai ma non trovai niente.”

Dietro insistenza dei tre figli che si erano trasferiti a São Paulo, la famiglia  emigrò. “Venimmo qui perché lì era difficile vivere” ricorda Maria do Socorro. “Dopo aver vissuto un anno a Jabaquara trovammo una chácara dove Manoel poteva lavorare.” Era la chácara del giapponese dove il padre di Guarà ancora oggi continua a lavorare. “Arrivai lì la chácara era così grande che ebbi un po’ di paura. Un anno dopo uno dei figli comprò un terreno del Lixão. Così è iniziato il legame della sua famiglia con la discarica. La madre di Wanderley , quando vide per la prima volta la montagna di rifiuti, disse che se ne avesse avuta la possibilità sarebbe andata via il giorno successivo.”Ho vissuto 40 anni nel Norte. Ne ho molta nostalgia, ma se ritorno laggiù, oggi che cosa  potrei fare? Continua dicendo che vivere vicino ad una discarica era difficile. “C’ erano giorni in cui non riuscivamo a sopportare il tanfo del lixão ma ora si sta meglio perché è stato chiuso. Adesso non c’è più nessuno che ci lavora, c’è solo gente che piange e ha fame. Viviamo con paura perché dicono che il lixão può esplodere da un momento all’altro in quanto sarebbe pieno di gas.”  Ma non è solo la madre di Wanderley a  non  sapere se l’area corre il rischio di esplosioni oppure no. In trenta anni di esistenza e di progetti di recupero ambientale , furono effettuati appena due studi. Uno realizzato tra il 1993 ed il 1994 dal Cepas/ USP (Centro di ricerca delle acque sotterranee dell’ Università di São Paulo), l’altro nel 1998 da parte dell’IPT (Istituto di Ricerca Tecnologica) su richiesta del Municipio di São Bernardo. Lo studio del Cepas  affermò che esistevano seri problemi di contaminazione delle acque sotterranee a causa del percolato che si infiltrava nelle falde acquifere. Oltre all’ impatto ambientale furono osservati  seri problemi di natura socio-economica che l’ esistenza del lixão creava. Lo stesso coordinatore dello studio, Alberto Pacheco, disse che per avere certezza di quello che esisteva nel sottosuolo era necessario condurre  indagini più approfondite. Le ricerche effettuate dall’IPT indicavano le modalità per il recupero dell’area. Ma perché tutto ciò avvenisse erano necessarie maggiori indagini conoscitive che iniziarono, come afferma Sonia Lima, direttore del Dipartimento Ambientale di São Bernardo con la sua chiusura. Ma fino all'ottobre del 2001 nessun passo era stato fatto dal momento che, il 16 Luglio, la discarica era stata chiusa. E' per questo che la frase di Dona Socorro riflette l’incertezza intorno a quello che esiste all’ interno della montagna di rifiuti di 30 metri di altezza “La gente diceva queste cose, ma nessuno sa”. 

Nonostante i 4 figli dipendessero dal lavoro nella discarica, Socorro ritiene che la fine del lavoro tra i rifiuti sia stato un bene per le famiglie. ”I miei figli lavoravano lì sopra: Zè, Everaldo, Edenilson e Eraldo. Ritenevo tutto questo orrendo. Questo mio dolore alla gamba è dovuto al fatto che salivo sul cumulo di  rifiuti 5 - 6  volte al giorno.  Avevo paura perché tutti lavoravano armati. Ma, grazie a Dio, ora sono tranquilla”. Ci disse che dei suoi figli solo Wanderley possedeva un’arma, ma che aveva smesso di portarla. Chiedemmo perché  portava con sé un’arma. Ci rispose che ogni volta che arrivava un camion avvenivano molti litigi. Ognuno aveva i suoi camion. Ma lui non sparò mai contro qualcuno. La casa di alvenaria dove vivevano aveva tre comodos, ma Manoel ancora non aveva finito di costruirla. La sua costruzione era stata iniziata da Zé. E allora decisero di trasferirsi dalla casa di Barba, il suo primo figlio, per comprare una casa nos arredores do lixão. Il posto in cui vivono si trova proprio di fronte alla collina da cui si accede alla discarica abusiva. Nonostante ciò, Manoel non pensò mai di lavorare raccogliendo i rifiuti. I figli gli dicevano di andare a lavorare lì, perché sarebbe stato molto vicino. “ Voglio andare al lavorare dal giapponese”, rispondeva Teimoso. Lui guadagnava 15 reais al giorno. Prima che il lixão chiudesse, Everaldo e Zé con il loro lavoro aiutavano la famiglia. “Dipendevamo sia dalla pensione di mio marito - 180 reais -, sia dalle costurinhas che faccio, oltre ad altri 180 reais portati dalla mainha. Mio marito, da quando è giunto dal Norte, ha sempre lavorato dal giapponese. Nessuno di noi mangia molto. Siamo noi 4: io, il Vecchio, Cau e la mainha”, dice Maria do Socorro. Dopo la chiusura del lixão la situazione finanziaria della famiglia non mutò di molto. Per lei l’unica differenza, dopo il 16 luglio, era il silenzio che era calato. “E’ cambiato tutto perché una volta di notte la gente non riusciva a dormire per il rumore provocato dai camion. Ora è molto più tranquillo. Nonostante Manoel  affermasse che le condizioni di vita fossero migliorarate dopo la chiusura, egli continuava a essere dubbioso. “Questo lixão era il pane quotidiano per tutte le famiglie che vivono qui”. Nel tragitto che Manoel fa dalla chácara del giapponese, che si trova anch’essa nella Strada di Alvarenga , lui ricorda il tempo in cui il lavoro nella discarica ancora esisteva, quando ritornava dal suo lavoro, guardava in alto e vedeva una coltre di fumo salire dal lixão. Racconta che i bambini avevano problemi respiratori. Se qualcuno stendeva i vestiti ad asciugare, diventavano neri a causa delle esalazioni. Maria do Socorro e Manoel ci dissero che non sarebbero ritornati al Norte perché i loro figli vivevano a São Paulo. La madre di Guarà diceva che vivere nella capitale Paulista è vantaggioso perché “tutto ciò che produce, si riesce a vendere. Lì al Norte non è così, si soffre soltanto” .

 

 

 

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Naca

 

        Una donna di 26 anni, e con la voce molto roca. Quattro figli da crescere: due bambine e due bambini. La primogenita, Aline, nata quando la madre - bambina Ivanilda Aparecida Souza aveva solo 15 anni. Dopo 11 anni, la donna che è rimasta al fianco di Guarà, dice: “ho cresciuto Aline come se fosse una bambola, per me lei è un gioiello”. Dopo aver avuto Lucileia, Washington e Vinicius, Naca, come è chiamata dai suoi familiari, fece una breve riflessione sulla sua vita. L’ultimo figlio, Vinicius, nacque 4 anni fa dopo una difficile  gravidanza. La settimana prima che nascesse, Naca fu segnata da quello che lei giudica il peggior giorno della sua vita: la morte per omicidio di Claudemir, il suo fratello più giovane. “Lui morì nel 1998. Non sapemmo cosa accadde. Era un a ragazzo che non aveva nemici. Io ero in attesa di Vinicius. La mia gravidanza fu complicata, ebbi un inizio di aborto, facevo dei controlli. Quel giorno io stavo molto male, andai dalla guardia medica, ma era chiusa.  Claudemir tornò dal lavoro, aveva comprato una macchina fotografica per farmi le foto all’ ospedale. Dopo lui uscì per andare a portare un regalo all’ altro nostro fratello che si sarebbe sposato il sabato successivo, e non è più ritornato” Piccoli dettagli della vita di Ivanilda mostrano la sofferenza che si prova a perdere un fratello. “Alle 5 del mattino, ebbi un presentimento, andai a casa di mia madre. Aprii la porta e non lo vidi disteso sul divano. Mia madre era già sveglia, preoccupata per Mica (soprannome di Claudemir, ndr). Era al matrimonio  dell’ altro mio fratello, Cleber, che stava aspettando Mica per andare con lui in un ufficio pubblico. Cleber scese per la strada di Alvarenga per andare a fare acquisti. Quando ritornò, disse: “qualcuno è morto” ma non immaginavo che fosse lui. Tutti qui già sapevano, ma nessuno aveva il coraggio di dircelo. Dentro di me sapevo che qualcosa era successo.

La notte mio cognato venne a chiamare Everaldo. Ritornò bianco in volto e lì capì cos'era accaduto. Impazzì dal dolore. Volevo andare a casa di mia madre, ma lui non me lo permise. Quando ci andai, lei era svenuta. Io rimasi scioccata: non svenni, non piansi, rimasi rigida come se fossi paralizzata. Il feto smise di muoversi nello stesso momento. Rimasi ore senza muovermi. Non volevano che io andassi al funerale. Andai lo stesso. Per me, questo fu il peggior giorno della mia vita. Mi rivolgo a Dio dicendogli che preferirei morire piuttosto che soffrire di nuovo così. Ancora non si sa cosa sia successo. Fu ucciso con due colpi di pistola, uno al petto, l’ altro alla testa. Io ancora non lo accetto. Non c’era  alcuna pista da seguire ed il caso fu archiviato.” 

 

Naca fa parte di una delle prime famiglie che presero possesso dei terreni situati intorno alla montagna di detriti. Accadde nel 1977, due anni dopo la creazione di leggi atte a salvaguardare le aree mananciais, che ancora oggi cercano di proteggere quel poco che è rimasto di mata (foresta) nativa.“Ricordo che qui era tutta una foresta. Questa baraccopoli non esisteva.” Anche Ivanilda assistette per anni all’arrivo di cumuli di rifiuti  trasformatisi nella grande montagna che attualmente raggiunge l’altezza di quasi 30 metri. Ha visto la topografia dell’ area trasformarsi. Oltre a vedere le baracche in costruzione, vide il pattume modificare i rilievi della zona.“Quei rifiuti, prima erano pochi, ora qui è tutta spazzatura”. Il Lixão si formò nel fondo della valle, ossia il luogo dove si formano i fiumi. Lei ricorda con precisione la prima volta che si avvicinò al monte di rifiuti: “Un giorno, quando aveva quattro anni, mia madre andò sul Lixão e mi disse di restare in casa da sola. Dopo poco la seguii. Spettinata, piangente, fu cosi che scopersi il Lixão. Nel vederlo rimasi sconvolta. C’era una moltitudine di persone.

A quel tempo i due municipi, Diadema e São Bernardo, scaricavano i loro rifiuti lì. In quel momento un camion stava scaricando scatole di cioccolato. Me ne fu regalata una ed io piangendo, spaventata e morendo di paura per la presenza del camion, andai via con la scatola di cioccolata in mano. Mia madre non voleva che lo mangiassi perché era molto caldo, e io piangevo ancora di più.” La madre di Naca,  Maria Aparecida, andava a lavorare nel Lixão di notte per prendere cibo per i maiali che allevava. Secondo Ivanilda, lavorare di notte era meglio, perchè c’era meno gente e si riusciva a prendere più roba. Lei cominciò ad aiutare la madre nella raccolta di rifiuti all’età di dieci anni. Ivanilda, a cui era sempre piaciuto andare a scuola, dovette smettere per allevare la la prima figlia di Ivonne, la sorella più grande. Dopo essere stata stuprata rimase incinta, e ebbe necessità di andare a lavorare. Oggi, la figlia, Claudia, ha 16 anni. Naca dovette lasciare gli studi.           

 

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fine prima parte

 

 

(em portugues)

Storias de vida e de morte na descarga

Uma comunidade morou no lixão de Alvaranga perto de S.Paulo

(primeira parte)

 

 

por 

Vanessa Schultz

Renata Leão

 

tradução em italiano por Gianluca Notarianni

 

Apresentação 

A notícia de que deveríamos fazer um Trabalho de Conclusão de Curso apareceu no início deste ano repentinamente. Pela primeira vez na faculdade, poderíamos fazer um trabalho da maneira que quiséssemos. Teríamos a oportunidade de realizar uma grande reportagem de cunho social, o que dificilmente o mercado de trabalho possibilita. O Lixão do Alvarenga, ao longo dos 30 anos de existência, tornou-se um personagem com vida própria na história da região do Grande ABC. Paralelamente, a existência de um aterro sanitário passou não ser somente um problema ambiental, mas social e jurídico. Resolvemos então relatar os acontecimentos que proporcionaram a formação de um lixão em uma área de mananciais e as histórias de vidas que passaram a depender de lixo. Aproximarmos dessas pessoas deveria ser o primeiro passo, o mais difícil de todos. Logo percebemos que existia um rancor impregnado em relação a jornalistas. A maior queixa que ouvimos foi sobre a maneira que esses profissionais se aproximavam deles. Contavam que chegavam no local e simplesmente iam tirando fotos sem pedir a ninguém. Por isso, falamos que éramos estudantes e que o objetivo era contar a história da vida deles. Demoraram cinco meses até que fizéssemos a primeira entrevista oficial. Mesmo assim, até a finalização do trabalho, em outubro de 2001, a comunidade do Lixão ainda não se sentia a vontade diante das lentes da máquina fotográfica. Em julho de 2001, entretanto, fomos pegas de surpresa. O aterro clandestino foi fechado. Com o tempo, todos os entulhos que ainda serviam para a venda foram vendidos. As famílias que mantínhamos contato ficaram sem trabalho. As histórias de vidas narradas no livro começaram a partir do fim. E da fome, que se tornou cada dia mais constante na vida das pessoas. Elas são os figurantes que rodeiam o personagem principal: a montanha de lixo de 30 metros e 30 anos de idade. O Lixão do Alvarenga equivale a um prédio de 10 andares. Formado em uma área de 40 mil metros quadrados, o que corresponde a 363 campos de futebol. Até o fechamento, aproximadamente 300 famílias dependiam da venda dos resíduos encontrados no meio do lixo. 
Demoramos para entender como o trabalho era organizado entre eles. E percebemos que a renda não era obtida somente com a venda de entulhos. Mas isso quem conta são os próprios catadores. Decidimos entrar em uma das casas dessas famílias para entender como é o dia-a-dia dessas pessoas que vivem de incertezas. Desde que saíram de outras partes do Brasil para tentar a sorte em São Paulo. Inúmeras tentativas de sobrevivência na cidade grande os levaram, enfim, para a vida em torno do lixo. Em algumas partes da reportagem, resolvemos manter a fala original dos personagens para o leitor penetrar nesse mundo desconhecido. Os conhecimentos, tanto da vida das pessoas como da história do Lixão, nos fez perceber o quanto o assunto é complexo e difícil de ser solucionado de imediato. A área precisa ser recuperada. E as famílias precisam de condições dignas de moradia e trabalho. Os problemas existentes desde o início do Lixão, em 1972, envolvem civis, autoridades públicas, ambientalistas. Procuramos abordar todos os aspectos, mas entendemos que a complexidade do assunto nos permitiria ainda muita investigação e tempo de dedicação. Produzimos essas páginas que você vai ler a seguir em sete meses, desde a realização do projeto até a colagem das páginas. Felicidade e indignação. São esses os sentimentos que possuímos após termos finalizado o curso com esse projeto que envolve um caso tão polêmico de descaso político, social e ambiental.
Por enquanto, tudo que fizemos pelos personagens foi ouvi-los com respeito e dar-lhes retratos para recordação. Esperamos sinceramente que, a partir da reportagem que se segue, sociedade e poder público reflitam e façam cada um a sua parte. Para salvar não somente a vida dos catadores, mas também a natureza.

Vanessa Schultz e Renata Leão



O fim e a fome

Fumaça, lixo e vazio. Personagens presentes no lixão do Alvarenga, no dia 16 de julho data de seu fechamento. Polícias Federal, Militar, Civil, autoridades públicas, imprensa e catadores do lixão. Concentração na entrada localizada na Estrada dos Alvarenga, município de Diadema, que seria até aquele dia o principal acesso de caminhões ao local. Clima de expectativa. Um trator vermelho abria uma vala para barrar o acesso ao lixão. 
Antes do término do trabalho, carros da imprensa subiram pela estrada que levaria até o topo do local. Ao contrário de tantas outras vezes em que estivemos lá, a entrada de repórteres nunca havia sido tão fácil. Nas outras vezes, os olhares desconfiados sempre estavam presentes. Quando chegamos ao topo, surgiu uma imagem impressionante: não havia nenhum catador trabalhando. Restou apenas muita fumaça, o cheiro típico do lixão e a magnitude, que nunca deixou de impressionar. Naquele dia de sol forte e frio típico de julho, os catadores estavam entocados em suas casas ou na entrada principal do lixão. Se fosse um dia normal, eles estariam perambulando, com cabeças voltadas para o chão à procura de lixo reaproveitável. Nas mãos, sempre carregavam sacos, que serviam para colocar o que aproveitariam. Havia também catadores que empurravam lentamente carrinhos de mão com resíduos vendáveis. E muitos caminhões não paravam de entrar e sair do lugar. Para observar todo esse funcionamento do lixão, sempre estávamos acompanhadas por Wanderley. Ele foi o primeiro catador que conhecemos e fizemos contato para poder entrar no local sem sermos observadas por muitos olhares desconfiados. Andávamos pela estreitas ruas que dividiam montes de lixo, formados por resíduos que desde 1972 eram lançados no local. No dia do fechamento, porém, foi a primeira vez que caminhamos pelo lixão sem a companhia de ninguém. Para chegar até a casa de Wanderley, passávamos entre a fumaça do lixo que fora queimado na noite anterior. O cheiro típico do lixão, que sempre ficava impregnado nas narinas durante todo o dia, era mais intenso. O odor inesquecível do lugar: cheiro de carniça, misturado com o de borracha queimada e enxofre. Chegamos na porta da casa de Wanderley. Chamamos pelo seu pai, Manoel. Ele disse que seu filho não estava. Nesse momento, apareceu Washington, terceiro filho de Wanderley. Na mão, ele carregava uma sacola, com seis pães. Fomos então até a casa. Uma descida íngreme e escorregadia dava acesso até a varanda da pequena moradia de alvenaria. Ao entrar, vimos Ivanilda, mulher de Wanderley, pela primeira vez. Os outros três filhos, Aline, Luciléia e Vinícius também estavam. Um beliche na sala, uma televisão, uma mesa, um armário e poucas cadeiras. A sala-quarto era dividida por uma bancada que seria a pia. Uma porta que provavelmente daria para o quarto. Outra porta levaria a uma espécie de quintal, de onde era possível ver outras casas do bairro. Na varanda da frente da casa, galões azuis armazenavam a água, usada para beber, cozinhar, tomar banho, lavar roupa e louça e brincar. Não havia encanamento. Uma vez por semana, caminhões-pipa abasteciam as casas. Conversarmos um pouco sobre a incerteza do que aconteceria depois do fechamento. Ivanilda sentia medo, não sabia como iria fazer para continuar sustentando quatro filhos. A renda até aquele momento era o trabalho do marido no lixão e faxinas que ela fazia a cada 15 dias, por R$ 40. Enquanto falávamos com ela, Vinícius, o caçula de quatro anos, comeu rapidamente cinco pães. Quando Aline viu, ficou brava com ele e disse: "Vou garantir o meu!". Pegou o último pão e o guardou no armário. Após a conversa, voltamos até a entrada principal. Havia mais catadores concentrados. Eles estavam preocupados com o futuro. bMuitos deles não sabiam do fechamento. O desespero do olhar das pessoas era em relação ao trabalho. Não sabiam o que fazer a partir daquele momento. Até o dia do fechamento, entretanto, a Prefeitura de Diadema ainda não havia definido qual seria o programa social que poderia recolocar os catadores no mercado de trabalho. Já a prefeitura de São Bernardo alegava que as famílias que moravam do lado de São Bernardo já participavam de programa de geração de renda desde 1997, por meio de cursos e trabalho no Centro de Reciclagem, que foi inaugurado em janeiro deste ano. Após tantos alardes de fechamento do lixão, que se iniciaram com a formação da Cetesb (Companhia de Tecnologia e Saneamento Ambiental) em 1976, a ação do dia 16 parecia efetiva. Esse fechamento definitivo foi anunciado em 5 de julho. As prefeituras de São Bernardo e Diadema armaram a mega-operação e anunciaram a presença de fiscalização nas entradas do lixão até verificarem que a ausência dos guardas não ofereceria nenhuma oportunidade de depósito irregular de lixo. A ? entrada de veículos também foi fechada com vala. As outras três, em que caminhões dificilmente passavam, foram barradas com placas de aviso. A partir daquele dia, a passagem com algum veículo pelo local implicaria apreensão do carro e multa. As prefeituras também fizeram campanha de esclarecimento da população que morava nos arredores do lixão. "O lixão do Alvarenga será fechado - Não deixe o lixo ser seu vizinho" era o slogan usado pela prefeitura de São Bernardo para anunciar o fechamento. Já Diadema usou ?. Caso a população observasse algum movimento irregular nas imediações do lixão, deveria ligar para os disque-denúncias de ambas prefeituras. Apesar de toda mobilização, os catadores continuaram no lixão até o dia 15 de julho. Após o fechamento, as famílias que sobreviviam dos resíduos catados passaram a depender da sorte e de programas sociais das prefeituras. Não havia nenhuma perspectiva efetiva de trabalho. A família de Wanderley foi uma das 144 famílias que ficaram com o destino incerto. Após essa operação, os caminhões, principalmente aqueles que carregavam entulhos de construções e circulavam no local dia e noite, pararam de subir os morros formados por lixo. A fumaça, proveniente de queimadas de pneus e outros materiais não-aproveitáveis, passou a ficar escassa. O cheiro ruim, antes percebido de longe, diminuiu. Os catadores que perambulavam pelo lixo desapareceram.
Entretanto, o fechamento definitivo não resolveria todos os problemas causados pela existência desse lixão de 40 hectares, localizado em uma área de proteção de mananciais. A área está a 300 metros da represa Billings, reservatório que abastece o Grande ABC. Além disso, 144 famílias dependiam dele economicamente e agora ficaram sem nenhuma perspectiva de vida. Nesse dia 16, o desafio de recuperar essa área apenas começou. 


Lobo Guará

Tantos nomes para uma só pessoa. Guará: "É um apelido bobo que eles colocaram em mim". É assim que Wanderley Augusto, nome artístico de José Everaldo Bezerra Oliveira, define um de seus apelidos. "O pessoal aqui só me conhece assim. Se perguntar por Wanderley, ninguém sabe." Na sua casa, chamam-no de Vezinho. Um homem alto e moreno, de 30 anos. No dia 1º de abril de 2001, nós o esperávamos na Estrada dos Alvarenga, na entrada localizada em São Bernardo. Era a primeira vez que iríamos até o Lixão. Mistura de receio e ansiedade. Chega um fusquinha. Era ele. Foi o primeiro encontro de tantos outros que viriam depois. Sensação de mistério pelo caminho. Quando se sobe pela pequena estrada íngreme, rodeada por mata verde, os olhares se alternam entre lixo e árvores. Às vezes, se o dia está úmido, é possível sentir cheiro de verde molhado pelo orvalho. De repente, surgem as casas e o imenso Lixão. A primeira vez em que se anda pela montanha de resíduos é impressionante. Terra misturada com lixo e cheiro muito forte. Quando se caminha pelo local, na maior parte do tempo, o que se vê são montes formados por entulhos de construções. Mas freqüentemente aparecem cachorros e ratos mortos, além de restos de comida. Até o dia 16 de julho de 2001, caminhões não paravam de entrar e sair do lugar. Aos domingos, o movimento era escasso, diferente dos dias de semana e sábados. Apenas algumas pessoas catavam objetos que iam precisar no seu dia-a-dia. Caminhando no Lixão aos domingos, sábados ou dias de semana, Guará nos contou aos poucos sua história. Desde 1987, ele vive a espreita do lixo. Faz parte da leva de nordestinos que migraram de terras natais para o Sudeste. Com 15 anos, saiu de Arco Verde, Pernambuco, para acompanhar os pais, Manoel e Maria do Socorro, na saga em busca do incerto. Moraram em uma casa em Americanópolis, na zona Sul de São Paulo. Segundo ele, nos anos 80, "era a época que a gente podia escolher trampo". Trabalhou logo em seguida em uma loja de consertar aparelhos eletrônicos. Depois, em uma metalúrgica. Após aproximadamente dois anos, sua família se mudou para os arredores do Lixão. Ele diz que seus pais "acharam o lugar mais sossegado". Começou então a trabalhar como vigia noturno em uma loja de móveis no Jardim Inamar, Diadema. Nessa época, com 19 anos, "por acaso, andando na rua", conheceu Ivanilda, sua mulher até agosto de 2001. "Eu saía para trabalhar e a gente se via na rua. Aconteceu". Resposta simples para o início de um relacionamento conturbado. Wanderley passou então a trabalhar como porteiro de prédio. Quando perdeu esse emprego, seu irmão o chamou para trabalhar no Lixão. "Falei não, não sei. Eu já era acostumado a trabalhar em firma. Aí não teve outra solução, as crianças começaram a vir e tive que encarar. Mas não por mim, pelas crianças." Para ele, trabalhar no lixo foi a maior dificuldade que enfrentou, desde quando deixou Arco Verde. "É um tipo de serviço que prejudica a saúde, por causa do mau cheiro, do ambiente. As pessoas dão impressão que não tem outra saída. Hoje você não pode escolher um trampo igual escolhia antigamente." Ele ainda manteve dois empregos antes de se decidir somente pelo trabalho no lixo. "Trabalhava com o pessoal da rádio, à noite, na parte de montagem de som. De dia, eu tava lá (no Lixão). A gente montava o som, ia dormir no carro. De manhã, a gente desmanchava. Vi que no Lixão rolava dinheiro. Falei com o pessoal: 'Arrumei outra bocada, preciso sair.'" Nessa época, apenas Diadema tinha permissão da Cetesb (Companhia de Tecnologia de Saneamento Ambiental) para usar o local como depósito de resíduos inertes. Era o bota-fora da Prefeitura, que funcionava em forma de aterro controlado, somente no território que pertencia ao município, cerca de 10% do total da área de 40 mil metros quadrados. Lá, trabalhavam alguns catadores. Entretanto, os outros 90%, localizados em São Bernardo, passaram a funcionar como aterro clandestino, comandado pelos próprios catadores. Essa parte era dividida em vários bota-foras. "Bota-fora é cada um com seu pedaço. Cada um joga seu lixo, seu entulho", explicou Guará, que comandava um desses locais. As pessoas que trabalhavam nessas divisões sobreviviam da cobrança de caminhões de firmas particulares que pagavam entre R$ 5 e R$ 10 para despejar lixo. Mas eles ganhavam mais dinheiro quando os caminhões iam retirar o lixo separado. Guará ganhava por mês de três a cinco mil reais. A quantidade variava conforme o material vendido. Um caminhão cheio de papel seco que saía de lá valia R$ 300. Segundo ele, "todo dia saía dois caminhão de papel". Mas o ferro, que costumavam chamar de chaparia, dava de R$ 400 a R$ 500 cada um. Todo esse dinheiro era dividido entre ele e o irmão que morava em Iguape. Segundo Guará, eles mesmos ligavam em firmas para fazer os acordos para depositar lixo. Mas a idéia de comandar um bota-fora e ganhar mais dinheiro começou a dar problemas. Quando descobriram que ele e seu irmão estavam ganhando muito, iniciou a disputa por caminhões. Isso gerou discussões e desavenças na comunidade do lixo. Guará conta que havia muitas ameaças por causa de caminhão. "Às vezes, estava todo mundo trabalhando e, de repente, ia um caminhão que nunca entrou lá. Um catador falava: 'É meu.' Outro falava: 'Não, fui eu que liguei.' Outro falava: 'Não, fui eu que liguei primeiro.' Aí, se esse caminhão fosse jogar pra mim e descobrissem que o pessoal pagava bem, iam quatro ou cinco pessoas, apavoravam e acabavam tomando o caminhão que jogava pra mim." Para evitar brigas, ele passou a trabalhar armado para garantir o lixo que era seu. Mas afirmou nunca ter de usado a arma. Depois de conseguir enfrentar o trabalho, ele confessou que ganhar dinheiro foi o aprendizado que mais valeu a pena, porque conseguiu o que queria. "Consegui minha casa, meu carro pra eu andar. Comprei meus instrumentos, que sempre sonhei e nunca pude comprar. Tenho tudo, não é do bom, mas dá pra eu tocar." Guará fazia o que mais gostava quando ia até Brasilândia, na zona Oeste da capital paulista: tocar forró à noite, com seu teclado. Ganhava 80 reais, se tocasse das 22 horas às quatro da manhã. "Gravar meu CD, ter sucesso e poder ajudar minha família e mais alguém que precise, como estou precisando no momento." Sonhos que alimentava depois do fechamento do Lixão, quando passou a depender do dinheiro que ganhava nessas noites de forró. No dia 4 de agosto de 2001, ele ainda tinha o desejo de levar os filhos para outro lugar. "Eles já acostumaram porque todos nasceram aqui. Mas eu não quero que cresçam aqui. Queria leva-los pra um lugar mais sossegado, com escola, posto de saúde mais perto. Um lugar saudável, com ar livre. Porque isso aqui não é mais ar livre. Muita fumaça, muita poluição e cheiro ruim." No dia 26 desse mesmo mês, Ivanilda destruiu o sonho do marido: colocou fogo no teclado. Ele estava na irmã quando recebeu o telefonema de sua mãe:
- Queimaram tudo seu aqui.
- O quê?
- Seu teclado também foi.
"Aí me deu um desespero". Para ele, Ivanilda fez tudo isso por ciúmes. "Ela cismou que tenho outra mulher e começou a discussão." O instrumento era o bem material mais querido ele havia adquirido com o dinheiro do Lixão. Isso lhe dava oportunidade de conseguir alcançar o que considera os maiores prazeres da vida: cantar e tocar. Foi a descoberta do teclado e a entrada no mundo artístico que transformaram o nome de Everaldo para Wanderley Augusto. Depois da briga, deixou a família e foi morar em uma casa que possuía em Brasilândia, onde morava sua irmã. Os sonhos passaram a ficar suspensos por tempo indeterminado. Tudo que havia conseguido de melhor na vida, passou a mudar. Falta de trabalho, destruição de seu teclado, separação da família e mudança de lar.



Os pais do lobo

"Eu já sofri tanto na minha vida, que se eu for falar meu sofrimento pra vocês, eu acho que vocês vão chorar". Manoel de Oliveira, 74 anos. Homem baixo, cabelos brancos. Sorriso nos lábios e chapéu de couro. O jeito de falar: linguagem do Norte do país. Fala de povo que saiu de terras distantes e secas. "Sou filho natural da Paraíba. Eu tenho dois sangues. Meu pai era filho natural da Bahia. Ele, moleque novo, se mudou pra Paraíba e me registrou como sangue da Paraíba". Sua mãe "é filha natural de Pesqueira". Desde quando foi registrado em Monteiro, Paraíba, Manoel guarda em sua mente histórias de "vida sofredora", como ele mesmo define. "Eu trabalhava de dia e de noite. Na lua cheia, não dormia, trabalhando. Toda vida meu sonho foi criar uma fazendinha, um cavalinho, ter uma vaquinha pra tomar leite. Mas nunca pude. A família era grande. O que eu trabalhava era pra comer." Manoel junto a Maria do Socorro Bezerra Oliveira, mãe de Wanderley, tiveram 13 filhos. Mas ele é pai de mais duas meninas, filhas de seu primeiro casamento, que terminou por causa da morte da esposa. Esse acontecimento na vida do pai de Guará não poderia ficar de fora do depoimento de sua história. A primeira mulher tentou se matar. Ela pediu para as duas filhas, uma de quatro anos e a outra de sete, saírem de casa. Nesse tempo, pegou querosene, jogou em sua própria cabeça e ateou fogo. As graves queimaduras a mataram. Após dois meses, Manoel começou a namorar Maria do Socorro, com quem vive há 41 anos. "Ele era viúvo. A mulher dele morreu no mês de maio, aí, quando foi julho, a gente já tava namorando. Nós passamos mais de ano para casar. Nós fomos simbora morar em Sororó. Lá nós casamos." Ela tinha 21 anos.Maria do Socorro Bezerra Oliveira criou então as duas enteadas, que cresceram com ela, mas nunca a chamaram de mãe. Formou-se assim a família, que aos poucos migrou para São Paulo. "Cheguei aqui no dia 24 de maio de 1987", recorda-se Maria do Socorro. Antes de se mudarem com os outros 11 filhos, três já estavam aqui. Essa mudança definitiva foi a segunda tentativa de alterar os rumos da vida sofrida. Manoel se lembra que da primeira vez não deu certo, porque não encontrou nenhuma chácara que pudesse ficar com a família inteira. Ele voltou então para o "Norte Véio". "Eu vim atrás de uma chacrizinha pra trabalhar. Nasci no meio do pesado. Cheguei aqui, procurei e não arrumei. Voltei. Cheguei lá, tomei conta de uma fazenda de gado. Aí o patrão vendeu. Fiquei desmantelado. Fui trabalhar de ajudante de pedreiro. Aí fui sofrer. Eu trabalhava de dia e de noite." Os filhos que já estavam aqui foram então atrás dele novamente. "Mas papai, o senhor ainda nesse sofrimento". Ele respondeu: "De que jeito? Eu não tenho pra aonde correr. Se eu deixar, morro de fome, os fio morre de fome. Assim tenho que me sujeitar."
Por insistência dos três filhos que já moravam em São Paulo, a família se mudou. "Nós viemos porque lá estava ruim de viver", lembra Maria do Socorro. Depois de morarem um ano em Jabaquara, arrumaram uma chácara para Manoel trabalhar. Era chácara do 'japunês', onde o pai de Guará trabalha até hoje. "Eu cheguei lá, olhei a chácara grande. Aí fiquei com meio medo. Pensei: 'Já tô meio bronco, já tô desmantelado, mas vou experimentar'. Morei mais ele, quase um ano." Lá, Manoel mexe com a terra, trabalho que aprendeu no "Norte Véio", onde ele "pegava três, quatro anos sem pingar um pingo d'água". Depois de um ano, um filho comprou um terreno nos arredores do Lixão. Assim, começou a ligação de sua família com o local. 
A mãe de Wanderley diz que, quando viu a montanha de lixo pela primeira vez, se tivesse dinheiro, no outro dia tinha ido embora. "Eu morei 40 anos no Norte. É pra ter saudades, né? Mas se eu voltar para lá hoje, o que é que vou fazer?" Ela ainda diz que acha muito ruim morar perto do Lixão. "Tinha dias que a gente não agüentava o cheiro da represa, o cheiro de peixe velho podre, o lixo. Quando tava perto de chover, saía um cheiro ruim que a gente não agüentava. Mas agora tá bom, porque acabou", diz Maria do Socorro. "Acabou, não tem mais ninguém trabalhando. Só tem gente chorando e passando fome. A gente vive com medo porque dizem que isso aí vai explodir, porque tem gás preso lá embaixo." Mas não é somente a mãe de Wanderley que não sabe se o local tem riscos de explosões ou não. Em trinta anos de existência e iminências de recuperação ambiental, apenas dois estudos foram feitos na área. Um pelo Cepas / USP (Centro de Pesquisas de Águas Subterrâneas da Universidade de São Paulo), colocado em prática entre os anos 1993 e 1994, e outro pelo IPT (Instituto de Pesquisas Tecnológicas), realizado em 1998 a pedido da Prefeitura de São Bernardo. 
O estudo do Cepas concluiu que existia sérios problemas contaminação das águas subterrâneas, por parte do percolado (líquido produzido pela mistura de chorume1 com águas, como as de chuvas). Além dos impactos ambientais, perceberam os sérios problemas socioeconômicos que a existência do Lixão proporciona. Mas o próprio coordenador do estudo, Alberto Pacheco, diz que para se ter certeza do que tem no subsolo no local, seria necessário um estudo mais detalhado.Já o trabalho do IPT direciona os caminhos necessários para a recuperação do lugar. Mas para esses procedimentos serem implantados logo em 2001, seriam necessárias mais pesquisas no local. Isso começou, segundo Sônia Lima, diretora do Departamento de Meio Ambiente de São Bernardo, com o fechamento. 
Mas até outubro de 2001 nenhum passo após o dia 16 de julho tinha sido dado. Por isso, a frase de Dona Socorro reflete a incerteza que paira em torno do que existe no interior de uma montanha de lixo de 30 metros de altura: "O povo diz isso, mas ninguém sabe." Mesmo com quatro filhos que dependiam do trabalho no Lixão, Socorro acredita que o fim desse trabalho com o lixo foi para o bem das famílias. "Meus filhos trabalhavam aí em cima: o Zé, o Everaldo, o Edenilson, o Eraldo. Eu achava muito ruim. Essa minha dor na perna era de todos os dias subir isso aí cinco ou seis vezes por dia. Tinha medo porque lá todo mundo trabalhava armado. Mas, graças a Deus, agora eu tô tranqüila". De seus filhos, ela diz que somente Wanderley tinha uma arma, mas que já tinha dado fim nela.
- Por que ele tinha uma arma? 
- Porque os cabras brigavam lá na portaria, quando entrava caminhão. Porque cada um tinha seus caminhões. E eles ficavam: "Esse é meu, esse é meu!" Mas ele nunca deu um tiro em ninguém. A casa de alvenaria em que moram tem três cômodos. Manoel ainda não terminou de fazê-la. Ela começou a ser construída pelo Zé. Então, eles resolveram se mudar da casa do Barba, o primeiro filho, citado anteriormente, a comprar uma casa nos arredores do Lixão. O terreno desse local que moram fica bem em frente a um morro que dá acesso ao aterro clandestino. Mesmo assim, Manoel nunca pensou em trabalhar catando lixo. Os filhos até falavam pra ele ir trabalhar lá porque era perto. "Não. Quero ir pro japunês", respondia, teimoso. Com o trabalho na chácara, ele ganha 15 reais por dia. Antes do Lixão fechar, o Everaldo e o Zé ajudavam a família. "Mas eu dependia é da aposentadoria do meu marido (R$ 180), das costurinhas que faço. Meu marido sempre trabalhou lá no japunês, desde que ele chegou do Norte. Tem mais R$ 180 de mainha. E ninguém come muito. São nóis quatro: eu, o Velho, o Cau e a mainha", diz Maria do Socorro. A mãe de Maria do Socorro tem 90 anos. A filha precisou tirá-la do Norte porque lá não havia ninguém para cuidar dela. Bem magrinha, estava sentada na cama quando a vi. Dormia encostada em um travesseiro e dela não pude ouvir nenhuma palavra. Se comunicava pelo olhar. "Minha mãe veio para aqui em 95, mas se aperreia todinha para ir embora. Lá não tem quem cuide dela, mas ela só quer ir embora".Depois do fechamento, a vida financeira da casa de Maria do Socorro não mudou muito. Para ela, o que mais é diferente depois do dia 16 de julho de 2001 é a existência do silêncio: "Mudou porque de noite a gente não dormia com o barulho dos caminhões. A gente tava num soninho e de repente a caçamba batia e 'pá', a gente acordava assustado pensando que era alguma coisa. Tá mais tranqüilo." Apesar de também dizer que a vida melhorou após o fechamento, Manoel fica um pouco dividido: "Esse Lixão era o pão de cada dia das pessoas daqui. Eu tenho pena de muita da gente que trabalhava aí. Tanto pai de família que tá passando necessidade aqui." Nos trajetos que Manoel faz da chácara do japonês, que também fica na Estrada do Alvarenga, ele guarda uma lembrança da época em que o trabalho no lixo ainda existia: quando voltava do trabalho e olhava para cima, via um tampão de fumaça no morro. "Eu dizia: Deus me perdoe!" Ele conta que as crianças ficavam doentes, com problemas respiratórios. Se alguém estendesse roupas nos varais, elas ficavam pretas de tanta fumaça.Maria do Socorro e Manoel falam que não voltam para o Norte porque os filhos deles estão aqui. Ficam divididos entre a saudade do lugar, principalmente de duas filhas que ficaram lá, e a vida que conseguiram aqui, apesar de continuarem pobres. A mãe de Guará diz que em São Paulo é bom porque "tudo que você faz aqui para vender, você vende. E lá no Norte não é assim. Lá é sofrimento." "A vista do que já fui, eu me considero um homem rico", fala Manoel convicto de que se estivesse em sua terra natal, não teria nada do que tem hoje e já teria morrido. "Eu não tinha nada disso. Tá certo, eu tinha uma casinha. O dinheiro de uma casa lá, não dá pra comprar um terreno aqui." Quando saíram do Norte, deixaram essa casa de cinco cômodos alugada. Resolveram vender para comprar outra em São Paulo. Ao pegar o dinheiro, perceberam que não daria pra comprar nem um terreno. Um filho precisou do dinheiro e o casal nunca mais recebeu. Manoel passou então a morar em um terreno que sabe não ser dele. "A casa que eu tinha lá no Norte eu vendi. Eu tava dizendo pra Socorro: 'Antes de eu morrer, vou fazer uma casinha pra tu'. Sei que isso aqui não é da gente, é da Prefeitura. Mas vou fazer a casinha e se um dia precisarem do terreno, nem que a gente fique ao menos um barraco, pra tu ficar no que é teu." Mesmo assim, ele se considera um homem rico: "Eu sou um sujeito que não tenho nada na minha vida. Mas tenho tanto prazer na minha vida, só pela confiança que eu tenho das pessoas. Sou um sujeito tão querido de gente, que vale a pena ". Outra alegria da vida de seu Mane é o forró, cultura do Norte que corre quente em seu sangue. "Tô ficando velho. Se eu tive em cima da cama e Vezinho tocar o forrozinho, eu posso não dançar mais, mas mexer debaixo da cama, eu mexo".

 

 

Naca

Uma mulher de 26 anos e voz muito rouca. Quatro filhos para criar: duas meninas e dois meninos. A primeira, Aline, nasceu quando a menina-mulher Ivanilda Aparecida Souza tinha 15 anos. Após onze, a mulher que ficou ao lado de Guará nos últimos 11 anos diz: "Eu criei a Aline como se fosse uma boneca. Para mim, ela era um brinquedo." Depois de ter também Lulciléia, Washington e Vinícius, Naca, como é chamada entre os familiares, faz uma breve reflexão sobre sua vida: "Eu sou muito nova. Além de ter acabado comigo, tô acabando com eles. Acho que não sou madura o suficiente. Nós (ela e Guará) sufocamos a nossa vida".O último filho, Vinícius, nasceu há quatro anos, depois de uma gravidez difícil. Uma semana antes de ele nascer, a vida de Naca ficou marcada, segundo ela, com o pior dia de todos: o assassinato de seu irmão mais novo, Claudemir. "Ele morreu em 98. A gente não sabe o que aconteceu. Era um menino que não tinha inimizade com ninguém daqui. Um dia ele saiu. Eu tava grávida do Vinícius. A gravidez do foi bem complicada, tive começo de aborto, fazia um controle para ver se eu conseguia segurar até os sete meses. Nesse dia, eu tava muito ruim, tinha vindo do posto de saúde. Estava de repouso. Claudemir chegou do serviço. Isso era sexta-feira e eu ia ter o Vinícius na outra sexta. Ele tinha até comprado uma máquina para bater foto de mim no hospital. Era doido para que eu fizesse coxinha para ele e nunca tinha feito. Aí me pediu para eu fazer e saiu para comprar as coisas. Voltou e fiz as coxinhas para ele. Comeu um prato cheio. Ele saiu e falei: "Não vai não!". Disse que ia levar o presente para o meu outro irmão, que ia casar no sábado. Eu disse para ele não ir, sei lá por quê. Mas ele disse: "Vai saber se amanhã eu vou estar vivo. Vou levar o presente agora." Saiu com o presente na mão. E não voltou mais." Pequenos detalhes da vida de Ivanilda mostram o sofrimento de perder o irmão. "Quando eram cinco horas da manhã, eu estava com um aperto no peito, levantei e fui na casa minha mãe. Abri a porta, olhei para o sofá e não vi ele deitado. Minha mãe estava de pé, preocupada com o Mica (apelido de Claudemir). Era casamento do meu outro irmão, do Cléber, que estava esperando o Mica para ir para o cartório com ele. O Cléber saiu e nós fomos comprar as coisas para fazer a festinha dele. O meu irmão desceu para o Alvarenga para comprar as coisas e viu o IML. Na volta, ele até falou: "Morreu alguém", mas nem imaginava que fosse ele. Todo mundo aqui já sabia, mas ninguém tinha coragem de contar para a gente. Aí bateu o desespero. Dentro de mim eu já sabia que algo tinha acontecido. Eu pedi pelo amor de Deus para o Everaldo procurar o meu irmão. Eu não conseguia nem andar, meus pés estavam inchados e, se eu descesse um degrau, já tinha hemorragia. Me sentia inválida, porque não podia fazer nada. Eu não comia desde sábado, só chorava. À tarde, eu consegui cochilar abraçada com um álbum de fotos dele. Quando foi à noite, meu cunhado foi chamar o Everaldo. Voltou branco. Só de olhar para ele eu já descobri. Pirei. Queria ir na minha mãe e ele não deixava. Quebrei até a TV nesse dia. Quando cheguei na casa da minha mãe, ela estava desmaiada. E eu entrei em choque, nem desmaiei, nem chorei, nem nada. Fiquei dura, paralisada. O nenê parou de mexer na mesma hora. Fiquei horas sem ação. Não queriam deixar eu ir no enterro. Eu fui. Para mim, esse foi o pior dia da minha vida. Eu falo para Deus que, se eu tiver que passar por mais uma dessas, eu prefiro morrer. Até hoje ninguém sabe o que aconteceu. Ele morreu baleado. Uma bala no peito e uma na testa. Eu não me conformo. Não tinha pista de nada e o caso foi arquivado." Um dos pedaços da vida de Ivanilda que, aos poucos, foram surgindo nos arredores do Lixão, desde quando chegou lá, há 24 anos. Ela tinha apenas dois anos. Naca faz parte de uma das primeiras famílias que tomou posse dos terrenos localizados aos arredores da montanha de lixo. Isso foi em 1977, dois anos depois da criação das leis dos mananciais, que ainda hoje tenta proteger a área de invasões que podem destruir definitivamente o pouco que resta de mata nativa. "Lembro que isso aqui era tudo mato. Não tinha esse monte de barraco". Ivanilda também viu os montes de lixo aos poucos irem se levantando, para se transformarem na grande montanha de lixo de aproximadamente 30 metros de hoje. Ela presenciou as transformações na topografia do lugar. Além de ver os barracos irem se formando, viu os resíduos mudarem todo o relevo do lugar. "Aquele lixo, aquilo era baixinho, aquilo tudo é lixo." O Lixão se formou em um fundo de vale, ou seja, local de nascente de rios. Ela lembra com precisão a primeira vez que se aproximou do monte de resíduos: "Um dia, quando eu tinha quatro anos, minha mãe foi para lá e disse para eu ficar sozinha. Passou um pouco e lá fui atrás dela. Descabelada, chorando. Foi aí que descobri onde era o lixão. Fiquei perdida olhando aquilo. Era muita gente mesmo.Nessa época, as duas prefeituras, Diadema e São Bernardo, jogavam lixo lá. Eles estavam jogando um caminhão de Prestígio. Pegaram e me deram uma caixa de Prestígio e eu, chorando, assustada, morrendo de medo da máquina. Vim embora com a caixa de chocolate na mão. Minha mãe não queria deixar eu comer porque estava quente. E eu chorava mais ainda porque queria comer." A mãe de Naca, Maria Aparecida, ia trabalhar no Lixão à noite para pegar lavagem para os porcos que criava. Segundo Ivanilda, trabalhar à noite era melhor porque tinha menos gente e dava pra pegar mais material. Ela começou a ajudar sua mãe no trabalho quando tinha dez anos. Tempos depois, Ivanilda, que sempre gostou muito de ir para escola, teve de parar de estudar para cuidar da primeira filha de Ivone, a irmã mais velha. Após um estupro, ela ficou grávida de uma menina e precisou ir trabalhar. Hoje, a filha, Cláudia, tem 16 anos. Como Maria Aparecida também não podia cuidar da menina, Naca precisou sair da escola. Com 13 anos, Naca tentou voltar a estudar, mas percebeu que estava muito atrasada e parou novamente. Voltou aos estudos em 1999, para participar da parte administrativa da Associação dos Catadores que cuida do Centro de Ecologia e Cidadania, idealizado pela Prefeitura de São Bernardo.  A idéia nasceu após a Prefeitura realizar, desde 1997, vários cursos profissionalizantes com 92 famílias moradoras do lixão, anteriormente cadastradas. Essas pessoas poderiam residir tanto em São Bernardo como em Diadema. Dalva Pagani é assistente social da Secretaria de Desenvolvimento Social e Cidadania de São Bernardo. Ela participa desde de 1997 da implantação desses cursos. Ela diz que, após rumores de que o lixão seria fechado, pensou-se no Centro como um local de trabalho fixo para os trabalhadores. Assim, em 1999, começou o curso de capacitação de 45 famílias cadastradas para participar da Associação dos Catadores. Os próprios catadores cuidariam do Centro por meio de cooperativa. Ivanilda foi uma das pessoas que participou da Associação. O Centro de Ecologia e Cidadania foi inaugurado em janeiro de 2001. O trabalho no local é separar o lixo reciclável coletado em 205 ecopontos de coleta voluntária espalhados por São Bernardo. Após separado, os trabalhadores vendem a empresas interessadas na compra do material. No primeiro mês de trabalho, cada família ganhou aproximadamente R$ 70. Por isso, alguns catadores retornaram ao lixão: "As pessoas foram honestas com a gente. Disseram: 'Olha, a gente vai voltar a catar no lixo porque dá mais. E se fechar mesmo, a gente volta'", lembra Dalva. Ivanilda foi uma dessas pessoas que abandonou o Centro. Ela trabalhou lá de fevereiro a maio de 2001. Naca diz que Guará pediu a ela que saísse para cuidar dos filhos. Eles não estavam indo à escola e Vinícius, o caçula, precisava de alimentação controlada por ser obeso.
Após o fechamento, porém, Ivanilda tentou voltar, mas não conseguiu. Alegaram que ela não podia porque mora em Diadema. "Desde o começo, sabiam que eu era de Diadema. Fiz todos os cursos, nunca faltei. Trabalhei na Associação, fiz a prova para poder passar para o negócio de tesoureira. Agora, eles não me deixam voltar mais. Avisei que ia me afastar, assinei uns papéis. Nesse intervalo, me colocaram para fora da Associação, com a justificativa de que eu era de Diadema." Depois do dia 16, quem faz parte de Diadema não pode mais ser atendido por São Bernardo. Das 92 famílias atendidas pela Prefeitura de São Bernardo, 23 deixaram de receber os benefícios do município. "Agora tem de ser só de São Bernardo", diz Dalva. Somente famílias que residissem em São Bernardo puderam voltar à Associação. "A gente conversou para ver o que a associação achava deles voltarem. A Associação achou legal. Eles precisavam, estavam no mesmo barco e o barco que eles estavam afundou. Então, tem que ter uma salvação. Qual a salvação? O Centro de Ecologia? Se eles eram catadores e fizeram o curso, por quê não?" As pessoas de Diadema deveriam então atendidas por esta cidade. Até o dia do fechamento, entretanto, as famílias que moram do lado desse município ainda não tinham apoio efetivo do governo. No dia 10 de agosto de 2001, 25 dias após o fechamento e antes de receberem a primeira cesta básica da Prefeitura de Diadema, algumas famílias faziam mutirões para comer. "Nós estamos passando um sufoco danado. Já chegamos até a fazer mutirões de almoço: arroz e feijão puro. Quem arruma arroz e feijão, chama os outros. Cheguei a ficar três dias sem comida, com os meus filhos chorando pedindo pão. Eu não tinha dinheiro. Teve dias, que andei com esses meninos para cima e para baixo sem saber o que dava para eles. Minha mãe chorava de ver os netos passando fome e não poder fazer nada para ajudar. Eles comem o que tiver. Não tem de onde esse povo tirar dinheiro", relata Ivanilda. A Prefeitura de Diadema passou então a estudar como seria o programa social que iria atender às famílias. Segundo Nádia Helena Guardini, assistente social do Departamento de Ação Social e Cidadania de Diadema, um mês depois do fechamento foram distribuídas cestas básicas para as 253 famílias cadastradas que dependiam da venda de resíduos para sobreviver. A maioria delas residem no Sítio Joaninha, região onde Naca vive. No dia 11 de setembro, a Prefeitura de Diadema ofereceu uma bolsa-salário no valor de um salário mínimo (R$181) para essas famílias. Nádia disse ainda que esse auxílio vai ser oferecido durante seis meses. Até outubro de 2001, uma sala de alfabetização com 20 pessoas foi montada. A previsão, segundo Nádia, é que haja mais duas para atender às pessoas que cursaram somente até a quarta séria do Ensino Fundamental. Além disso, foi oferecido curso de artesanato para 20 mulheres que residem no Sítio Joaninha. De acordo com a assistente social, esses projetos fazem parte de um processo de construção de alternativa de trabalho para os catadores: a formação de três postos de reciclagem na região. Assim que o Lixão fechou, a família de Ivanilda passou a depender do dinheiro que Guará conseguia ao tocar e de faxinas que ela fazia a cada 15 dias, por R$ 40. Em agosto de 2001, o casal se separou, pela quarta vez. Naca contou que no dia da separação os meninos acordaram pedindo pão e Guará disse que não tinha dinheiro. À tarde, ele foi levar uma máquina de costura para sua irmã, que mora em Brasilândia, periferia na Zona Oeste de São Paulo. Ivanilda ficou indignada com o fato de ele ter dinheiro para colocar gasolina no carro e não ter para comprar pão para os filhos. Falou com ele ao telefone: "Você vai ver o que vou fazer". Foi até a casa antiga, que fica ao lado dos pais de Guará. Pegou as roupas, o teclado e colocou fogo em tudo. Dessa maneira, mais uma vez acabou relacionamento que havia se transformado em casamento quando ela tinha 15 anos por causa de um mal-entendido. "Um dia, a mãe dele colocou na cabeça que eu tava grávida. Sou teimosa, geniosa. Já que eles estavam falando que eu tava grávida, falei que tava mesmo. Mas não tava não. Aí minha mãe me pôs para fora de casa e nós arrumamos uma casa e fomos morar juntos. Depois de três meses, minha mãe acreditou que eu não estava grávida. Aí a gente ficou até hoje", lembra-se Ivanilda, dias antes da separação. Desde 1990 a 2001, Ivanilda ficou ao lado de Guará. Ela construiu grande parte de sua vida entre lixo, tapas, beijos, conflitos e arrependimentos: "Se minha mãe tivesse conversado comigo, acho que eu não tinha quatro filhos, de maneira nenhuma."

 

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fim da primeira parte